Uva ‘Italia’, a rischio un secolo di storia
Tonio Palmisano: “Il mercato favorisce le varietà apirene create in laboratorio, boicottando le uve tipiche del nostro territorio”
L’annata viticola da qualche giorno è entrata nella fase centrale della raccolta dell’uva Italia, i cui grappoli, fin dal primo decennio del 1900, imbandiscono le tavole dei consumatori per tutto l’autunno. Un secolo di storia che, come apprendiamo dall’imprenditore agricolo Tonio Palmisano, rischia di essere “bruciato”.
Nell’intervista rilasciataci, Palmisano apre un’interessante parentesi sull’evoluzione del mercato delle uve, sempre più sbilanciato verso le qualità apirene, ovvero senza semi. Una tendenza del gusto, influenzata anche dai grandi breeder, che spinge il produttore a investire in nuove varietà, finendo in un ginepraio di vincoli: “strozzato” dai “dazi” per i brevetti e le royalties, deve fare i conti anche con l’incertezza sulla tenuta e sulla produttività delle nuove piante.
Ad ogni modo, in una stagione in cui l’agricoltura si è trovata ad attraversare due fuochi – i capovolgimenti meteorologici e le impervie contingenze imposte dalla pandemia – l’uva Italia ha dimostrato di essere una certezza per il comparto ortofrutticolo turese e pugliese.
Gli ultimi giorni di intensa pioggia hanno danneggiato la produzione?
«Le piogge in sé non hanno rappresentato un problema: almeno per il momento, grazie al vento di tramontana non si è creata umidità sui grappoli. Le maggiori criticità si sono avute a causa delle forti raffiche di vento che hanno compromesso le strutture di alcuni tendoni: in questi casi, venuta meno la protezione dei teli, l’uva è stata esposta direttamente alle intemperie e, chiaramente, è stata danneggiata».
Quali sono i prezzi di vendita?
«Attualmente si va da un minino di 60 centesimi a 1 euro al chilo, in base alla qualità del prodotto. Rispetto agli anni precedenti, i prezzi sono grossomodo invariati; il vero nodo della questione è che l’uva Italia continua ad avere un prezzo di vendita più basso rispetto alle altre varietà senza semi».
Le motivazioni?
«Ci sono due interpretazioni del fenomeno. Alcuni affermano che l’uva Italia sarebbe meno attrattiva per il mercato, incline a investire maggiormente sulle qualità apirene, e per questo verrebbe acquistata a un prezzo inferiore dai grandi rivenditori. Ci sono altri, invece, che ipotizzano l’esistenza di un tacito accorto tra i breeder, ovvero le società che sperimentano nuove varietà di uva, e la grande distribuzione organizzata (Gdo). Questo “cartello” sarebbe finalizzato a “bruciare” le varietà libere, come appunto l’uva Italia, e avvantaggiare le uve brevettate. La ragione è strettamente legata al profitto, giacché se un produttore decide di impiantare un’uva brevettata, i breeder guadagnano due volte: la prima per l’uso del brevetto e la seconda per le royalties che ogni anno vanno corrisposte come una sorta di affitto».
Ha sperimentato qualche nuova varietà che l’ha convinta?
«Ce ne sono tante ma è difficile farsi convincere poiché ogni uva ha i suoi difetti. Intendiamoci, anche l’uva Italia non è immune da problemi ma ha una storia secolare alle sue spalle; una storia che ci dà la garanzia di avere una produzione certa ed economicamente sostenibile. Molte delle nuove varietà, invece, hanno mostrato enormi limiti dopo l’impianto: alcune sono risultate sensibili a particolari malattie o ai trattamenti antiparassitari, altre si sono rivelate non compatibili con le condizioni climatiche del territorio. Il risultato è che spesso il produttore è stato costretto a estirpare il nuovo impianto, anche a distanza di una sola annata, con una rilevante perdita economica. A queste incognite si aggiunge una considerazione di fondo: stiamo parlando di uve create in laboratorio che non hanno nulla a che vedere con quelle “tipiche”, ossia con le varietà territoriali che hanno attecchito nelle nostre campagne, seguendo un percorso di selezione naturale durato decenni».
Durante la Sagra dell’Uva di Rutigliano ha partecipato a vari convegni. Ci sono stati spunti di riflessione interessanti?
«Sono state presentate alcune nuove varietà di uva ma, come detto in precedenza, le incognite sono tante. In più, ci sono anche vincoli economici: oltre a pagare il brevetto e le royalties, sei costretto ad associarti a un commerciante che, per diversi anni, ha l’esclusiva sul taglio dell’uva. È indubbio che il gusto del consumatore ci sta portando a cambiare direzione e a privilegiare le qualità apirene; tuttavia il produttore dovrebbe essere soggetto a meno vincoli: siamo disposti a pagare il brevetto al momento dell’impianto, riconoscendo il lavoro di ricerca che è stato fatto, ma non possiamo accettare di dovere corrispondere una “tassa” annua per le royalties e di essere condizionati nelle scelte dei canali di commercializzazione del prodotto. Sono restrizioni inaccettabili, a maggior ragione se si considera che non abbiamo garanzie né sulla produttività delle né sulla durata di queste nuove varietà».
Fabio D’Aprile