Turi saluta Nino “la ceccèdde”
Milko Iacovazzi ricorda lo storico calzolaio turese scomparso in questi giorni
In Finlandia la chiamano “kaukokaipuu”, in Germania “fernweh”: è la nostalgia di un luogo che non abbiamo mai visitato, ma che sentiamo emotivamente vicino. Il poeta e drammaturgo Federico Garcìa Lorca parlava invece del “fatale sentimento di esser nati tardi”, conseguente ad un’altra forma di nostalgia, in questo caso, di epoche mai vissute.
Per quanto possa sembrale innaturale e surreale, l’attaccamento a cose, persone e spazi mai vissuti non è qualcosa di impossibile, tant’è vero che esiste, anche se non tutti lo abbiamo sperimentato e quindi riconosciuto come possibile. Tuttavia, lo ribadiamo, esiste, là dove viene curata una Tradizione, da quella tramandata oralmente nelle tribù o nelle civiltà del passato remoto, a quella scritta e multimediale del presente e del futuro. Difatti, la tradizione, nel fornire contenuti e informazioni che il tempo avrebbe potuto spazzare via, regala inevitabilmente un’esperienza emotiva forte, poiché crea un legame con le proprie origini; coltivando il piacere di questo tipo di conoscenza, si è poi naturalmente spinti a conoscere altre tradizioni, per paragonarle alle proprie, per rintracciare punti di congiunzione o, ancora una volta, per puro piacere antropologico.
E così, nel riconoscerci cittadini di un piccolo borgo e cittadini del mondo, la nostra mente ci permette di provare empatia, e dunque nostalgia, verso la realtà intera, di qualsiasi tempo e luogo; è questo il potere della cultura: aprirci a prospettive diverse da quella strettamente personale-locale e farci sentire più umani e simili di quanto all’apparenza non sia dato vedersi.
Con questa lunga premessa, abbiamo provato a sintetizzare la costante duplice ragione, informativa ed emotiva, dei racconti di Milko Iacovazzi, frammenti di romanticismo offerti alla vostra cortese attenzione, come quello riportato di seguito in ricordo di Nino Rossi “la ceccèdde”, storico calzolaio turese classe ’21, scomparso in questi giorni; non abbiate paura di provare nostalgia verso il mondo, il luogo e la persona di cui stiamo per parlarvi, perché, anche se non li avete conosciuti, sono un pezzo della memoria del vostro paese e dunque, in una certa misura, anche di voi stessi:
“Nel silenzio che in questo momento ci circonda, nel silenzio che lo caratterizzava, è andato via il sig. Rossi; non era un Rossi qualsiasi: per tutti era “la ceccèdde”, calzolaio, icona della nostra Turi. Si è spento, lasciandoci dietro tutti i ricordi di un’epoca volata via insieme a lui.”.
IL MICROMONDO DEL CALZOLAIO
“La parte più consistente del suo lavoro erano le riparazioni, poiché farsi confezionare un paio di scarpe nuove costava molto di più che ripararle. Oggi non è più così: le scarpe si trovano sempre più a buon prezzo e la figura del calzolaio è pressoché scomparsa.
In passato si possedeva un solo paio di scarpe, sicuramente molto più resistenti di quelle attuali, rinforzate con i chiodini nella suola e nei tacchi. Nelle famiglie, con l’aumentare e la crescita dei figli, capitava spesso che i più grandi passassero le proprie calzature ai più piccoli, come un vero e proprio passaggio di testimone. Addirittura, andando molto più a ritroso e ascoltando le storie dei nostri bisnonni, i campagnoli d’un tempo erano soliti recarsi in paese percorrendo scalzi buona parte del tragitto, magari con le scarpe legate per i lacci e messe a penzoloni sulle spalle, indossandole dopo, solo in prossimità del centro abitato. Adesso ci sembrerebbe masochistico, ma in realtà era un metodo per limitarne al minimo l’usura: altri tempi.
Quanti ricordi ci hanno lasciato i nostri calzolai, sempre chini a risuolar calzature, con gli occhiali sulla punta del naso, i chiodi in bocca e un berretto in testa. La mole di lavoro e la quantità di scarpe erano tali che quasi mai alzassero la testa e, ciò nonostante, si era disposti ad aspettare una riparazione anche per una settimana. Oggi abbiamo ormai perso l’odore della colla (“bostik”, lo chiamavamo) e l’incessante battito del martello sui chiodini (“i semendèdde”) dei nostri vecchi calzolai.
Sul proprio banchetto da lavoro campeggiavano ogni sorta di attrezzo da lavoro: “u’ martìedde”, “la tenàgghie”, “i pondìne”, “i semendèdde”, “u’ ‘mmàstece”, “l’assùgghie” ecc. In inverno poi non poteva mancare il braciere, o meglio “la frascère”, unico sistema di riscaldamento. Ovviamente il punto più luminoso della stanza era riservata alla vecchia macchina Singer, un must dei calzolai. Loro però non erano solo capaci riparatori, ma anche abili realizzatori pronti a soddisfare le richieste di coloro che volevano una scarpa su misura o adatta alle proprie esigenze. Gli scarponi ad esempio erano destinati a contadini e muratori e, quindi, dovevano essere comodi e robusti; per renderli impermeabili all’acqua, il consiglio era di cospargerli di grasso, se non ricordo male, di coniglio. L’odore di pelli, colle e tinture confluiva in un’unica essenza, dolce e piacevole, che caratterizzava la bottega, luogo di incontro e di umana condivisione nei periodi invernali. Spesso ci si fermava ad osservarli, mentre bucavano la pelle con la lesina, per poi inserirci, ad incrocio, le due punte dello spago costituite da setole di cinghiale o maiale precedentemente indurite con la pece. Restavamo incantati da quella operazione fatta da mani esperte, avvolte da strani guanti di pelle che ne proteggevano il palmo”.
NELLA BOTTEGA DI NINO “LA CECCÈDDE”
“Era in centro, in via Maggiore Orlandi; non lavorava da solo, ma sempre in compagnia dell’unico operaio e di suo padre che, inizialmente, gli faceva da supervisore. All’interno, ricordo anche una sedia, l’unica, per la prova delle scarpe, con accanto, per terra, un piccolo specchio e un tappeto su cui provare qualche passo. All’alba erano già posizionati sui loro sgabelli, nonostante la sera facessero tardi: troppo prezioso il loro lavoro ed il tempo da dedicare alle centinaia di scarpe che sostavano nella bottega. Era questa la bottega del calzolaio, un luogo in cui l’abilità delle mani e la fantasia dell’artigiano affascinavano chiunque, un luogo di socialità e racconti cordiali. Le vecchie botteghe dei calzolai rappresentano ormai solo il ricordo di un mondo ormai inghiottito dall’economia e dalla frenesia dei gusti estetici della società moderna, votata al consumo, a tratti bulimico. Un tempo invece nulla si buttava e tutto si riparava, facendo affidamento alla ponderatezza artigianale. Quell’odore di cuoio e mastice è ormai solo un ricordo, ma sono sicuro che riviverlo in questo racconto farà bene al cuore di tanti nostalgici.”.
LEONARDO FLORIO