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Ciliegie, un’annata da dimenticare

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Tra i danni del maltempo, l’emergenza Covid-19 e i pasticci della burocrazia. La testimonianza di Tonio Palmisano

A Turi, patria dell’oro rosso, da sempre vige una regola aurea: le primizie, “bigarreaux” e “giorgia” in prima linea, servono per ammortizzare i costi di produzione e raccolta; le “ferrovie”, invece, sono il jolly su cui si punta per avere un margine di guadagno. Quest’anno ogni certezza è stata messa in discussione: le gelate di marzo hanno quasi azzerato le primizie e pare che anche la regina delle ciliegie, la “ferrovia”, non goda di buona salute.

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Una prospettiva resa ancora più tragica dall’emergenza Covid-19 che, accompagnata da uno stuolo di norme dubbie e contradditorie, ha complicato le operazioni di raccolta, aumentandone tempi e costi.

La conferma che il 2020 passerà alla storia come una “stagione da dimenticare” arriva da Tonio Palmisano, imprenditore agricolo turese che ha accettato di rispondere alle nostre domande. «Il forte vento di inizio settimana – anticipa – potrebbe decretare la chiusura in anticipo della “campagna delle primizie”: le ciliegie, urtando tra di loro, si ammaccano e non sono più commerciabili».

Il 70% delle primizie sarebbe andato perso a causa delle gelate di marzo. Conferma questa stima?

«Assolutamente sì. Le primizie, e in particolare la varietà “bigarreau”, hanno subito danni ingenti poiché i giorni di gelo hanno colpito la pianta proprio nel momento in cui i fiori si preparavano a diventare frutti. Se normalmente un albero produce 50 chili di ciliegie, oggi ne raccogliamo al massimo 10 chili».

La minore quantità disponibile ha portato a prezzi di vendita più alti?

«Sicuramente le prime ciliegie si stanno vendendo a prezzi più alti rispetto alla media del periodo: siamo partiti da 10 euro e, piano piano, si è scesi intorno agli attuali 5 euro al chilo. Tuttavia, per raccogliere lo stesso quantitativo dello scorso anno, serve il triplo del tempo. In più, si sono verificati tempi di maturazione più lunghi e disomogenei: in generale, per raccogliere tutte le ciliegie prodotte da un albero erano sufficienti due passaggi, quest’anno sono al terzo passaggio dallo stesso albero e ne prevedo un quarto».

RACCOLTA IN SICUREZZA

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Come state affrontando le disposizioni in materia di sicurezza?

«Ho acquistato tutti i dispositivi di protezione personale richiesti dalla legge: mascherine, guanti e gel igienizzante. Una spesa che incide relativamente; a pesare è la riorganizzazione dell’intero sistema di raccolta per garantire la “distanza sociale” tra gli operai.

Personalmente, ho previsto un operaio che lavora la parte bassa dell’albero e due che, munti di scala, lavorano quella alta. Inoltre, la squadra, proprio per evitare contatti, percorre per intero la fila di ciliegi, senza potersi muovere liberamente nel campo, “saltando” da un albero all’altro. Anche questo fa lievitare i tempi e i costi della raccolta: le nostre piantagioni, almeno quelle storiche, presentano file in cui si incontrano varietà diverse con altrettanto diversi tempi di maturazione».

Come funziona il trasporto degli operai?

«Il DPCM stabilisce che, preferibilmente, va occupata la metà dei posti del veicolo. Dunque, ogni vettura potrebbe trasportare fino a 3 operai. A fronte della normativa nazionale, apprendo che il Comune di Sammichele ha stabilito che in ogni auto possano viaggiare un massimo di due operai. Quindi, se ad esempio ho tre operai, sono costretto a chiedere di utilizzare due veicoli. Vorrei far notare che a Turi non siamo latifondisti ma proprietari di piccoli e medi appezzamenti. Io che ho una ventina di dipendenti, dove dovrei parcheggiare dieci auto? Questo è un esempio concreto dei paradossi che si creano quando si scrivono norme senza conoscere la realtà e senza confrontarsi con gli addetti ai lavori per capire quali siano le direttive effettivamente efficaci».

IL PASTICCIO DELLE VISITE MEDICHE

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Un altro esempio dei cortocircuiti di una normativa astratta e poco chiara sono le visite mediche, cui gli operai agricoli devono sottoporsi prima di iniziare il lavoro nei campi.

«La prima contraddizione – spiega Palmisano – è che i medici del lavoro devono certificare che l’operaio non ha contratto il Covid-19 senza la concreta possibilità di eseguire i tamponi. La seconda è che fino al 28 aprile, il decreto legge prevedeva che la visita medica per quest’anno fosse sospesa. A dieci giorni dall’inizio della raccolta, abbiamo appreso che invece era comunque necessaria. Questo improvviso cambio di rotta ha comportato un serio problema: a raccolta già iniziata, abbiamo dovuto “rincorrere” i medici del lavoro che, gestendo centinaia di operai, hanno liste d’attesa lunghissime. Il che spesso comporta non riuscire a eseguire la visita medica nei tempi previsti, diventando passibili di una sanzione da parte dell’Ispettorato del Lavoro. Siamo messi con le spalle al muro, dobbiamo scegliere tra essere multati o lasciare marcire le ciliegie sugli alberi».

Qual è la sua controproposta?

«Considerando che è stata vietata la spirometria, punto essenziale della visita medica agricola, abbiamo chiesto che, in questo momento delicato, sia sufficiente che l’operaio presenti un certificato redatto dal proprio medico curante, che tra l’altro conosce la storia clinica del proprio assistito. In ogni altro settore lavorativo il dipendente è tenuto a rinnovare il libretto sanitario ogni quattro anni, solo in agricoltura si richiede una visita annuale. Il dubbio è che lo Stato pensi di aver trovato la “mucca da mungere”; non si rendono conto che continuando così condanneranno al fallimento l’intero settore agro-alimentare».

STAGIONALI, UN DILEMMA IRRISOLTO

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Quest’anno non verrà allestita la foresteria per i lavoratori immigrati stagionali. Concorda o si sente penalizzato?

«È un aspetto che non mi ha mai riguardato: ho sempre impiegato manodopera locale, cui si aggiunge qualche dipendente che proviene dai Comuni limitrofi. Ad ogni modo, sono d’accordo con la scelta dell’Amministrazione: i cerasicoltori che hanno bisogno di usufruire di questo tipo di forza lavoro devono assumersene le spese. In questo momento storico particolare, inoltre, i rischi sanitari sono troppo alti e, vista la scarsa quantità di ciliegie, penso che si possa fare a meno dell’aiuto degli stagionali senza subire contraccolpi. Tralasciando le considerazioni sulla fase emergenziale, la radice del problema è che oggi un’azienda agricola non può più investire nella sola raccolta delle ciliegie».

In che senso?

«Chi si specializza nella cerasicoltura necessita di un maggior numero di braccianti esclusivamente durante i trenta giorni di raccolta. Difficilmente riesce a trovare manodopera locale perché l’operaio agricolo preferisce inserirsi in un’azienda più strutturata, che assicura la possibilità di lavorare tutto l’anno e non solo per un mese. Da qui la necessità di chiamare in causa i lavoratori stagionali che, pur capendo l’esigenza dei colleghi cerasicoltori, non possono essere accolti e gestiti a spese della collettività».

Per sopperire alla mancanza di manodopera si è suggerito di coinvolgere giovani e disoccupati. La ritiene una strada percorribile?

«Temo sia un proclama destinato a cadere nel vuoto. La prima domanda che mi pongo è dove poter reperire questi giovani e disoccupati: finora nessuno mi ha contattato per proporsi. Aggiungo che, in passato, ho inserito annunci di ricerca di personale ma non ha mai ottenuto risposta. Poi mi chiedo: se usufruissi del Reddito di Cittadinanza e percepissi 800 euro, avrei davvero voglia di andare a lavorare in campagna, svegliandomi alle 5 di mattina e affrontando una giornata faticosa, per guadagnare qualcosa in più?».

UNO SGUARDO AL FUTURO

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A proposito di giovani, oggi consiglierebbe la “carriera di agricoltore”?

«Ci penserei un paio di volte. Viviamo in balia di una politica che non consente di lavorare in tranquillità. Siamo la categoria più vessata e, oltre a lottare con le avverse condizioni meteorologiche, dobbiamo fronteggiare la sfida della globalizzazione, confrontandoci con Paesi che sono molto più competitivi: hanno un terzo delle nostre spese di produzione, il costo della manodopera è un decimo rispetto a quello italiano, si possono utilizzare prodotti per i trattamenti fitosanitari che da noi sono vietati in quanto ritenuti nocivi, e la burocrazia è prossima allo zero. Per giunta, veniamo accusati di “avvelenare” e distruggere il territorio, quando è vero il contrario: lavoriamo ogni giorno rispettando tutte le norme per garantire ai consumatori un prodotto di qualità e ci prendiamo cura delle nostre campagne. Mi auguro che l’emergenza che stiamo vivendo porti a riflettere su un aspetto sempre sottovalutato: se gli agricoltori si fermassero, i supermercati sarebbero vuoti e il decoro del territorio di cui tanto si parla scomparirebbe nel giro di qualche mese».

Per concludere, una previsione sulla produzione delle ciliegie “ferrovie”?

«Purtroppo, le stime parlano di una perdita del 60% della produzione. Il mio augurio è che tutti i produttori di Turi riescano a raccogliere quelle poche “ferrovie” che ci sono, vendendole a prezzi che permettano di recuperare almeno le spese».

Fabio D’Aprile

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