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Alla ricerca del senso perduto

SPOSI

La dote nuziale, “i pànne espòste” e “u’ père” a cui far corrispondere “u’ suèzze”

A distanza di una settimana, siamo felici di poter apprendere l’interesse mostrato dai lettori verso il nostro tentativo di aprire un piccolo spazio di approfondimento dedicato al nostro dialetto, all’analisi etimologica di alcuni termini e all’uso proverbiale di alcune espressioni idiomatiche turesi. Nell’ultimo numero, grazie al contributo di Andrea Lenato e della sua pagina “Turi ai lov”, ci siamo avvicinati ai due sinonimi “stangachiàzze” e “squagghiasòle”, per poi passare alla distinzione tra coloro che “s’ammènene a’ spezzè” e chi, invece, tende ad “ammenàrse o’ gràtte”.

PINO SAVINO E LA DÌJE DU’ MERCHÈTE

Quest’oggi, vogliamo partire da un video postato da Pino Savino sulla pagina Facebook “Turi iè bell” a proposito del venerdì, giorno del mercato, del quale sentiamo tutti la mancanza. Il testo in rima declamato dal nostro concittadino è approssimativamente il seguente:

“Iòsce, jè la dìje du’ merchète e tùtte i fèmmene vònne a fàscene la spèse: stè c’accàtte i paparùle, ste c’accàtte i malengène, i cazìette, i merlìette e i patène; se prevvède pe’ la settemène. S’approfìtte de stù fàtte pe’ sapèje da li àlde i fàttere: cùdde se nè scennùte, cùdde s’è spesète, a cudd’àlde ‘ng’avònne arrebbète tre gaddìne, nu chenìgghie e u fìle d’òre de’ la fìgghie. La fìgghie de’ Felomène pertève pànn’a’iòtte: ce la vìde chèdda vrèttele quànne pàsse nànze a me accòme s’abbòtte! Buongiòrne commà Rosìne, s’ho puèste i fèfe o’ fuèche: ce s’avèssere abbrescè, da marìteme egghià abbescequè. Buongiòrne commà Crescènze: nu nùdd sìme dìtte, stème appòst ch’ la cosciènze!”.

LA DOTE NUZIALE E I PÀNNE ESPÒSTE

Dopo aver ripreso il mercato con una sorta di “inquadratura dall’alto”, di visione d’insieme, il testo guida la nostra attenzione su Rosìne e Crescènze, due tipiche comari che si incontrano al mercato per fare la spesa e scambiare qualche confidenza; prima però viene nominata tale Felomène, la cui figlia “pertève pann’a’iòtte”.

Cosa vorrà dire quest’espressione? Da Pino Savino siamo passati alla nostra Lina Savino, spesso interpellata per chiarire alcuni concetti sul dialetto turese dall’alto dei suoi 82 anni vissuti a Turi. Ciò che innanzitutto va detto è che ci troviamo in questioni nuziali. Sin dai primi del Novecento le famiglie delle coppie che decidevano di sposarsi stipulavano in forma scritta i “capitoli matrimoniali”, per la “sicurezza della dote, del dotante, della sposa, e dei figli che da quello saranno per nascere…”.

In questo antico atto, risalente al diritto longobardo, molto articolata e centrale era la parte che trattava della dote di cui doveva disporre la donna contraente il matrimonio e della “controdote”, seppur di minor rilevanza contrattuale, dell’uomo; difatti era quest’ultimo a poter avere la gestione, non il possesso, della dote di sua moglie e non il contrario.

In ogni caso le famiglie si guardavano bene dal permettere ai propri figli matrimoni economicamente svantaggiosi, sia che fossero maschi o femmine; un indizio, un’unità di misura impiegata per inquadrare lo status finanziario di colui o colei con cui si sarebbe convolato a nozze era rappresentato proprio dai panni: quanto più alto era il numero di panni a propria disposizione, tanto più logicamente si era lontani dalla povertà. Uno dei massimi livelli raggiungibili – se non il massimo – era “pann’a’dèsce”: dieci lenzuola, altrettante coperte, venti cuscini, due materassi, due reti per il letto, dieci camicie da notte ecc. fino al “canarùle”, una traversa in stoffa grezza disposta al di sopra del primo lenzuolo che copre il materasso.

Spesso, al limite tra l’ironia e la schiettezza tagliente, alla domanda “Ce (dòte) pùerte?” si era soliti rispondere con “pann’a’quàtte (o un altro numero) e cùdde de’nànde”, oppure, nel caso in cui fosse una donna a rispondere, “chèdde de’ nànde”: ma difficilmente immaginiamo una donna di quei tempi parimenti esplicita nel suo linguaggio come l’uomo.

Zappa, rastrello e rattavidd

Ad ogni modo, è davvero degna di nota l’abitudine dell’esporre i panni. Cosa sono “i pànne espòste”? Tempo fa era un momento importante di aggregazione e di “taglio” a livelli astrali, in cui si era invitati ad entrare in casa o per la via ad ammirare la dote nuziale della donna, sistemata e messa in bella mostra. L’esibizionismo di una volta persiste ancora, pur avendo assunto sembianze diverse: magari adesso i tempi vogliono che si esponga altro, piuttosto che la dote nuziale, con la dinamica del “tagliare” globalizzata e resa quotidiana sui social. Per certi versi, però, il progresso ha portato con sé qualche evoluzione positiva: adesso ad esempio non si è tenuti come un tempo all’obbligo, e alla relativa pressione sociale da questi esercitata, di dover dimostrare le proprie capacità sessuali nella prima notte di matrimonio, pena una macchia indelebile nel rapporto matrimoniale tra coniugi e, ancora una volta, tra le loro famiglie.

A proposito, invece, della controdote maschile, spesso le famiglie a vocazione agricola davano ai propri figli maschi in occasione del matrimonio “u’ rastièdde”, “la zàppe” e “u’ rattavìedde” con cui “se vè a’ mascè”, ovvero a muovere il terreno sotto “u’ ceppòne” così che la polvere “vè mbàcce all’ùve e nà ‘uàste” – ci spiega Lina Savino che, come sempre, ringraziamo per le sue preziose delucidazioni.

innesto

“Nàn puète allemè u’ stuèzze, ci u’ père na’ jàcchie u’ suèzze”

Questa frase ci è stata proposta e tradotta da uno dei nostri affezionati lettori, ovvero Francesco Roberto: “Praticamente quando si innesta – scrive – serve la marza giusta. Non molto grande e non molto piccola”.

Chiedendo conferma in giro, siamo pervenuti ad una traduzione molto simile, ma diversa in qualche dettaglio fondamentale. In realtà, infatti, con “père” non s’intende l’albero delle pere, ma un sinonimo di “suèzze”: insomma più che “pero”, il significato potrebbe essere “pari”.

A dire il vero, parlare di sinonimi non è molto corretto, quantomeno in senso assoluto. Relativamente a questa frase, però, il senso di “suèzze” è molto simile a quello di “père”, perché ci si vuol riferire a due parti tra loro combacianti, come quando constatiamo che due persone molto simili tra loro si stanno confrontando: “Père ch’ père.” – ovvero “Pari con pari”, esclameremmo in senso dispregiativo, a maggior ragione se il livello intellettuale dei due interlocutori non fosse proprio tra i più elevati. Stando a quanto ci riferisce a Lina Savino, sarebbe più ironico e figurato dire in tali circostanze: “Nàn puète allemè u’ stuèzze, ci u’ père na’ jàcchie u’ suèzze”.

Un’altra circostanza, un altro uso che ci ha spinti ad un’interpretazione diversa di quel “pero”, inteso qui come “pari”, e di “suèzze”, in tal caso con “altrettanto pari”, è quella in cui “s’addrèsce nù parète”: nel tirar su un muretto a secco, bisogna far sì che la struttura tenga, che i mattoni siano ben incastrati l’uno con l’altro, ovvero che ogni “père” trovi “u’ suèzze”.

Terminando con questa analisi a ritroso della frase, arriviamo alla parte iniziale, dove si parla di “allemè u’ stuèzze”. Ebbene, combinando quanto detto finora e la traduzione proposta da Francesco Roberto, ne vien fuori che questa particolare espressione fu sì molto probabilmente formulata a partire dall’idea dell’innesto, ma che il pero sarebbe fuorviante rispetto alla più generica marza con cui si va a creare l’innesto stesso. La tecnica dell’innesto a spacco prevede infatti che una marza sia tagliata a cuneo (“allemè u’ stuèzze”) nella sua parte inferiore e inserita nello spacco del portainnesto: è questo il momento in cui “u’ père” (la parte incuneata della marza) trova “u’ suèzze” (lo spacco del portainnesto). D’altronde quando qualcosa riesce ad entrare perfettamente in un contenitore, si dice che è andato “suèzze suèzze”.

LEONARDO FLORIO

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