In Africa non esiste la parola “straniero”
L’esperienza in prima persona nelle carceri libiche e la storia di Kader Diabate raccontate senza censura da Giancarlo Visitilli. A Turi potrà esserci una scuola di italiano per stranieri?
Nel tardo pomeriggio di martedì 25, è approdato a Turi il prof. Giancarlo Visitilli, giornalista e docente di lettere. Invitato da Domus Libri presso il Bar Origine, Visitilli ha presentato il suo ultimo libro “La pelle in cui abito”. Tra i suoi vari impegni, l’autore ha fondato la cooperativa sociale “I bambini di Truffaut” ed è tutt’ora organizzatore e direttore del Festival Cinema & Letteratura “Del Racconto, il Film”. La scrittura e il cinema sono dunque i media con cui il docente 46enne originario di Bari ha maggiormente lavorato.
Durante la presentazione, Visitilli si è gentilmente prestato alle domande della moderatrice Maristella Orofino, che ha introdotto al pubblico i contenuti del libro partendo da un breve sommario che riassume il “viaggio della dignità” intrapreso da Kader Diabate: «Un’avventura – spiega la Orofino – intervallata da parentesi descrittive in cui viene raccontata l’Africa ancestrale, tribale vissuta da Kader ed il suo contraddittorio contesto culturale dal quale lo stesso Kader decide di andar via». La moderatrice non dimentica di far riferimento anche alle vicende dalle forti tinte emotive, come ad esempio l’amore che Kader prova nei confronti di Assetou, una giovane donna data in sposa ad un uomo parecchio più adulto. Una vicenda, questa, che lascia nel protagonista un dolore immenso: «Kader la ricorderà per sempre anche con una lettera di un lirismo elevatissimo. Complimenti all’autore per aver saputo tradurre questi sentimenti così lontani e allo stesso tempo vicini». Ecco di seguito riportate alcune domande poste dalla moderatrice a cui, con una schiettezza poeticamente corsara, Visitilli risponde a cuore aperto, senza censura.
Come hai incontrato Kader e cosa ti ha portato alla scrittura del libro?
«Un anno e quattro mesi fa ero proiettato altrove. Un giorno, mentre ero a scuola, mi arriva la chiamata da uno sconosciuto e, poiché faccio il giornalista, durante una pausa rispondo e scopro che dall’altra parte del telefono c’è Giuseppe Laterza: inizialmente ho pensato che fosse uno scherzo». Di lì a breve, l’editore e Visitilli si incontrano, seppur, almeno in prima battuta, con scarsi risultati: l’idea di parlare di Kader non colpisce particolarmente il docente barese che rifiuta la proposta, salvo poi contattare Giuseppe Laterza dopo 48 ore, alle 3 del mattino, poiché folgorato dall’idea intuitiva di un titolo, ovvero “La pelle in cui abito”.
Superate le divergenze con l’editore, dopo alcuni giorni Visitilli incontra Kader nella cooperativa sociale da lui stesso fondata. In questo luogo, “in cui vivo la massima espressione di uomo”, Visitilli si occupa anche di giovanissime ex prostitute nella cui percezione, comprensibilmente distorta, delle relazioni e dei rapporti sociali, “tutto ciò che è gesto d’amore, è per loro orrore”. Con Kader, come nel caso di queste giovani ex prostitute, bisognava “ricostruire un corpo”: «Ho incontrato Kader tre volte, ascoltandolo per 10 ore ogni volta. Dopo questi tre incontri non ci siamo più visti e per due mesi sono rimasto a scrivere un libro di 302 pagine, poi dimezzate. Quello che è scattato dopo è stata un’esperienza fortissima di pianto condiviso. Nel libro – dirà più tardi – ci sono tre lettere: al padre, alla madre e ad Assetou. Kader, nel leggerle, mi ha chiesto: “Ma come hai fatto a scrivere con le tue parole cose che, nello stesso modo, avrei detto io alle persone che amo?”. Tra la mia esperienza e la sua ci sono state delle interferenze. Entrambi ad esempio siamo andati via di casa piuttosto presto».
IL VIAGGIO IN LIBIA
Con la rabbia di un flusso di coscienza autentico, l’autore passa a raccontare la storia di due ragazze della sua cooperativa, rispettivamente di 14 e 15 anni. Le due giovani donne devono sottoporsi ad una delicata operazione di svuotamento, Visitilli è spaventato ma non dimentica di essere al loro fianco: questi due episodi ed un’affermazione a lui rivolta da una delle due ragazze lo scaraventano in un abisso di profonda tristezza. «Ne ho parlato con il mio psicoterapeuta che mi ha consigliato di staccare. Il giorno del mio compleanno, però, parto in Libia con due scafisti per vedere se quanto detto da Kader fosse vero, camuffandomi come un addetto alla distribuzione pasti dei militari» – racconta.
E qui gli orrori diventano indicibili, su tutte la storia di Joy colpirebbe qualsiasi sensibilità e insensibilità: «L’ho vista morire da un giorno all’altro perché non aveva da mangiare e bere da 13 giorni affinché non potesse difendersi dagli stupri di massa”. Non da meno le interviste condotte assieme a delle nigeriane stuprate con l’impiego di elettrodi applicati al pube: “A 46 anni non avrei mai immaginato di vedere davvero ciò che ho raccontato ai miei studenti insegnando Primo Levi. Sono tornato devastato con enormi difficoltà nel dimenticare certi odori, il puzzo umano di uomini rinchiusi in 4, in 6, in celle 2×4 a morire di stenti. Buona parte di queste descrizioni sono finite nel libro. I lettori spesso dicono che c’è tanta rabbia, ma mi sono impegnato per porre al centro la speranza». A questo punto nasce una diatriba su cosa sia davvero medievale: “noi” o “loro”? «Noi in Italia non conosciamo moltissimi autori e intellettuali africani, mentre Kader aveva sentito parlare dei nostri. Chi è davvero nel Medioevo?».
IN AFRICA NON ESISTE LA PAROLA “STRANIERO”
«Un genio come Eugenio Scalfari, che ha letto l’impossibile, mi ha detto: “È una scoperta aver scoperto che in Africa non hanno la parola ‘straniero’ per gli esseri umani”. Questo la dice molto dal punto di vista della filosofia del linguaggio. Gli esseri umani non possono essere estranei». Inoltre, per tradizione culturale, stando a quanto riferito da Visitilli, gli ospiti in Africa vengono accolti molto facilmente ed invitati a dormire nei letti dei “padroni di casa”. Queste cose dobbiamo dircele. Cambiano modo di fare integrazione».
L’INTERVENTO DI BAMBA MOUSSA
Durante la presentazione di Visitilli è stato previsto uno spazio dedicato a Bamba Moussa, presidente dell’Associazione “APS Ivoire Union ETS” di Turi, al quale viene chiesta una riflessione sull’integrazione: «Sono arrivato a Turi da clandestino, ma mi sono messo a lavorare e a sensibilizzare i ragazzi su come integrarsi. Ho studiato statistica e probabilità all’università e ho imparato che bisogna lavorare nel possibile per fare l’impossibile». Dopo queste parole, Bamba ha espresso il desiderio di una scuola di italiano per stranieri, ringraziando l’AUSER poiché si è mostrata disponibile ad impartire alcune lezioni.
INCA-STRA-RSI
«La parola comprensione – chioserà Visitilli sempre in merito all’integrazione – non mi piace, preferisco conoscenza. L’incastrarsi che crea amore. La scuola ha ruolo fondamentale rispetto all’integrazione, non solo tra neri e bianchi». Ma quindi, gli domandiamo, se non esiste la parola “straniero”, esiterà almeno il suo concetto? «Loro non usano lo stra-, l’extra-». L’alterità esiste anche nella cultura di Kader e di tanti africani, con la differenza che essa viene tranquillamente inclusa nell’orizzonte degli eventi possibili: insomma ciò che è sconosciuto non viene inteso come astratto, irreale o se vogliamo alieno, extraterrestre.
LEONARDO FLORIO