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Cultura

I bambini del CAP incontrano Maria Teresa Milano

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Andrea Giuliani: “Conoscere l’autrice è una grande occasione di crescita e formazione”

Dopo l’incontro rivolto ad un pubblico adulto tenutosi nella giornata di domenica 16 presso Casa delle Idee, l’autrice e formatrice Maria Teresa Milano ha incontrato i più piccoli presso il Centro Aperto Polivalente di Turi, gestito dalla Cooperativa Itaca, all’interno della progettualità di “Famiglie in Centro per l’Infanzia e l’Adolescenza “, promosso dall’Ambito Territoriale Sociale 2 a cui il nostro Comune appartiene assieme a Gioia del Colle, Sammichele di Bari e Casamassima.

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L’incontro, promosso dall’associazione Didiario – Suggeritori di Libri, ha visto la partecipazione dei bambini e dei ragazzi che frequentano il centro e di alcuni genitori.

«Questo incontro costituisce una preziosa occasione per mostrare anche ai genitori un po’ di quel che facciamo qui nel CAP, perché è fondamentale che tutte le figure educative lavorino in sinergia per il bene dei bambini e dei ragazzi» – ha dichiarato con soddisfazione Andrea Giuliani, referente del centro.

«Inoltre, conoscere l’autrice del libro che hanno letto e poterle porre delle domande è per i bambini una grande occasione di crescita e formazione, affinché la curiosità mai sazia dei bambini non sia confinata alla lettura di un libro e non si esaurisca al suo termine. Da sempre affrontiamo con loro il tema della diversità, dell’esclusione e del razzismo perché non si tratta di concetti astratti ma di gesti e situazioni che vivono ogni giorno, spesso a scuola. La storia può quindi venirci in aiuto quando ci interroghiamo su quale sia il modo migliore per reagire e educare i cittadini di domani. Lascio ora la parola ai bambini che hanno preparato alcune domande e riflessioni».

Perché hai deciso di scrivere un libro per bambini?

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«Per tanti motivi. Fin da quando ero piccola ho sempre amato le storie. Mia nonna Maria aveva un’osteria in un piccolo paesino e quando mia mamma, che faceva la maestra, era a lavoro, trascorrevo il mio tempo con lei che, oltre a saper cucinare qualunque piatto, era anche molto brava a raccontare storie. Tra i miei coetanei c’era chi faceva collezione di figurine, chi di palline, chi di bamboline; io invece facevo collezione di racconti. Così ho a mia volta sviluppato un interesse nel raccontare, soprattutto ai bambini, perché è più divertente che raccontare agli adulti. Io insegno ebraico, e gli ebrei hanno sempre lasciato ai propri figli non tanto i beni materiali, quanto i racconti; tutt’ora la sera della Pesach, la Pasqua ebraica, ci si siede intorno al tavolo e i bambini fanno una prima domanda da cui parte un racconto. Si racconta ai bambini per aiutarli a crescere, per formare delle idee, per far crescere la fantasia.

La seconda ragione è che io mi sono resa conto quand’ero già grande e ho cominciato a studiare la shoah che, quando c’è una guerra, anche i bambini vivono la guerra; può sembrare scontato ma i bambini hanno un vissuto tutto loro e caratteristico durante la guerra. Ho quindi avvertito il bisogno di capire meglio le storie dei bambini per raccontarle ad altri bambini».

È stato difficile raccogliere queste storie?

«È stato difficile perché ho dovuto raccogliere solo sette storie tra le centinaia, forse migliaia, che sono state scritte; decidere di raccontare una storia anziché un’altra è una grande responsabilità.

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Questo libro nasce dieci anni fa, con questi stessi racconti, ma rivolto ad un pubblico di insegnanti. In questa edizione, che è invece rivolta ai bambini, ho però aggiunto un nuovo racconto, scritto da Cesare, un mio carissimo amico, che è stato un partigiano. A 92 anni prende ancora oggi la biciletta, indossa il caschetto fluo e il suo kway, anch’esso fluo, e scende per tutta la Val Susa.

Qualche anno fa le mie figlie mi han chiesto: “Mamma, perché siamo a casa il 25 aprile?” A scuola avevano detto che era vacanza, senza aggiungere altro. “Il 25 aprile è la Festa della Liberazione, ma non ve lo racconto io, vi faccio conoscere una persona” ho risposto. Siamo quindi andati da Cesare che ha raccontato loro la sua storia, la stessa storia che trovate alla fine del libro. Cesare ha quindi passato il testimone alle mie due figlie, cioè alla generazione più giovane, e attraverso questo libro a tutti voi».

Come finisce la storia “Il sottomarino?

«Può finire in molti modi. Io vi posso raccontare com’è finita la storia dell’autore della storia Uri Orlev, che significa “luce del cuore”, il cui vero nome era Jerzy Henryk Orlowski. Visse nel ghetto di Varsavia con il fratello e la madre, e alla morte di quest’ultima per mano dei nazisti, fu deportato assieme a suo fratello al campo di concentramento di Bergen-Belsen, dove iniziò a scrivere poesie.

Senza più i genitori, il papà era andato a combattere, al termine della guerra, finalmente libero, fu portato con il suo fratellino in un Kibbutz in Israele, una comunità dove si mangiava tutti assieme, si dormiva tutti assieme. Lì fu cresciuto assieme agli altri bambini che come lui non aveva i genitori e crebbe, si sposò, ebbe dei figli e dei nipoti. Infine, da molto grande ha infine rincontrato il suo papà».

In questo breve articolo non mi è riuscito, sicuramente per mia mancanza, ma anche un po’ per impossibilità effettiva, di trasmettere a voi lettori se non una piccola parte della valenza dell’incontro; al di là dei contenuti per quanto nobili e seri, molto altro sfugge alla penna. Sorrisi di cuore e di comprensione, sguardi di supporto e di complicità, inguaribili ansie da palcoscenico e delusioni per dei soldatini desiderati. Per tutto questo e molto altro vi invito, se ne avrete il tempo e la voglia, a partecipare di persona ai prossimi appuntamenti del CAP.

Damiano Barbieri

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