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I pettòle tònne e i ‘ngarteddète ‘ngeleppète cu’ cuètte

cartellate (1)

L’albero di Natale di una volta? Nessun albero e nessuna decorazione: solo un ramo con qualche caramella e frutti di stagione

Qualche settimane fa, pubblicavamo su queste pagine l’utile procedimento da seguire per poter produrre, in casa, la salsa ed i cosiddetti “pomodori a pezzetti”. Seppur fuori periodo, questo approfondimento riuscì a suscitare un certo clamore, merito anche delle accurate indicazioni fornite dalla nostra relatrice d’eccezione, ovvero Lina Savino, 81enne turese: in un vortice di espressioni linguistiche e vocaboli totalmente alieni rispetto al dialetto parlato quest’oggi, vi raccontavamo, scandendola passo dopo passo, una tradizione, quella della salsa, in grado di rinnovarsi senza alcun problema anche nei tempi recenti.

Tre settimane più tardi, sempre grazie al know how della nostra Lina, i lettori hanno avuto modo di annotare la prassi necessaria per ottenere formaggio e ricotta fatti in casa. Questa seconda tecnica, con tutto il bagaglio di termini dialettali che include in sé, risulta essere senza dubbio a maggiore rischio d’estinzione rispetto a quella della salsa. Successivamente, si è registrato un vero e proprio plebiscito: tantissimi lettori hanno infatti annotato e accolto di buon grado le tecniche necessarie alla preparazione, sempre home-made, dei “chiacùne”, dell’“àneme di mùrte” e della “recòtte ascequànde” (da accompagnarsi ovviamente alla “fecazzèdde di mùrte”). All’epoca entravamo nel mese di novembre, mentre oggi siamo alle porte dell’Immacolata, anzi della ’Mmacolète: “Alla ‘Mmacolète, la prima pettolète” – esordisce, a gamba tesa, la nostra preziosa relatrice.

pettole (1)

I pèttele tònne

Come anticipato poc’anzi da Lina Savino, è atto di devozione e tradizione, folklore e spiritualità, festeggiare l’Immacolata con la prima – di una lunga serie – “sfornata” di pettole (la “pettolète”, per l’appunto).

Scopriamo dunque cosa fare per ottenerla, seguendo queste proporzioni: «Prendiamo mezzo kg di farina, mezzo litro di latte tiepido, mezzo kg di patate, un lievito di birra e un pizzico di sale. Innanzitutto – spiega la nostra intervistata – dobbiamo lessare le patate, sbucciarle e schiacciarle. Dopodiché aggiungiamo, mescolando per bene, un lievito di birra ed un pizzico di sale: l’impasto che andiamo ad ottenere deve essere lavorato con forza, “a schiaffo” con la mano finché non vediamo delle bolle al suo interno. A questo punto copriamo l’impasto con dei panni e lo mettiamo in crescita per circa 3 ore: più è al caldo, più veloce sarà la sua crescita. Intanto, versiamo in una padella quattro dita di olio e aspettiamo fino a poco prima che “ièsse a fèrve”».

A questo punto, versiamo un po’ di olio sulla nostra mano e la chiudiamo quasi come un pugno: con un cucchiaio prendiamo un po’ dell’impasto che intanto ha smesso di crescere e lo lasciamo scivolare nel pugno. Stingendo la mano quanto basta, una pettola tonda sbucherà dalla parte inferiore del pugno, cadendo direttamente nella “frezzòle” in cui abbiamo versato olio in abbondanza. Una volta nella padella, la pettola va girata velocemente con una “fercìne” (forchetta), affinché risulti fritta in maniera omogenea: dopodiché possiamo tirarla fuori e adagiarla su un piatto con carta assorbente. Concludiamo poi sistemando con un pizzico di zucchero e cannella.

I ‘ngarteddète

Non vogliamo scomodare alcun libro di fonetica o peggio di linguistica, tuttavia, come traduzione dialettale di “cartellata”, sembrerebbero esistere due parole distinte: “carteddète” e “’ngarteddète”. Qui adotteremo la seconda, poiché più arcaica rispetto alla prima certamente più italianizzata e moderna.

CARTELLATE

Questi gli ingredienti necessari e le proporzioni da seguire: un kg di farina 00, 400 gr di olio, 200 gr di acqua condita con poco sale.

Iniziamo facendo la pasta delle cartellate. Mescoliamo gli ingredienti e lavoriamo la pasta con le mani. Dopodiché la avvolgiamo nel cellophane e in una tovaglia: senza cellophane, la pasta diventa poco lavorabile perché “chietrèsce e fèsce u scùrze sòbbe”. Dopo 10 minuti, cominciamo a tirare fuori, a poco a poco, la pasta precedentemente avvolta e iniziamo a stenderla con il mattarello (o magari “u’ leganèle”, ovvero la mazza della scopa, all’epoca precursore del mattarello ed efficace strumento educativo) fino ad ottenere la finezza che desideriamo: non esageriamo perché, se troppo sottile, la pasta tende a spezzarsi.

Con la rotella smerlata andiamo a dividere la pasta in lavorazione in tante striscette larghe circa 2, 3 cm. Dopodiché bisogna fare “u’ pìzzeche”: prendiamo i due lati lunghi di una striscetta, li solleviamo e li uniamo in più punti, ovvero i pizzichi. Attenzione: tra ognuno dei pizzichi deve esserci uno spazio vuoto. Arrivati alla fine della striscetta, iniziamo ad arrotolarla, unendo “pìzzeche” con “pìzzeche”, fino ad ottenere una rosa, ovvero la cartellata. A questo punto ripetiamo il procedimento per tutte le altre striscette, carichiamo le cartellate su una “tièdde” e mettiamo a “mbèrnè” (infornare) per 15 minuti in forno “pezzìnghe nàn pìgghiene chelòre” (finchéè non diventano del colore desiderato).

U’ cuètte

D’altronde si sa: “sòbbe e’ ‘ngarteddète” ci vuole “u’ cuètte”! Ecco dunque le indicazioni per ottenere dell’ottimo vincotto fatto in casa. «Innanzitutto, raccogliamo dei fichi, sia verdi che secchi, in campagna. Tornati a casa, li mettiamo in una callère (caldaia), versiamo acqua al suo interno fino a coprirli ed infine li mettiamo a cuocere “sòbbe o’ trepèit” (treppiedi). Quando i fichi sono cotti, si tolgono dalla caldaia e si raccolgono in un sacco di percalle che andrà poi appoggiato sul lato dentellato di uno “stregatùre” (lavapanni manuale in legno): stringiamo quindi il sacco e, attraverso le stesse maglie del tessuto, lasciamo scorrere il liquido in una conca di creta che avevamo precedentemente posizionato sotto lo “stregatùre”. Questo liquido si versa poi nuovamente nella caldaia per farlo cuocere, finché non diventa “fìtte” (denso)».

cartellate (2)

Come facciamo a capire il giusto punto di cottura del vincotto? «Basta prenderne un cucchiaio dalla caldaia e versarlo in un piatto: se praticando una riga al centro del piatto essa stessa scompare, vuol dire che non è stata raggiunta la densità giusta; “le due metà del piatto” non devono dunque riunirsi e la riga al centro deve rimanere».

‘Ngeleppè: voce del verbo “glassare”

«Accòme se ‘ngeleppèscene i ‘ngarteddète cu’ cuètte? Semplice. Versiamo il vincotto in una “tièdde de crète” (tegame di creta) e, se lo desideriamo, possiamo aggiungervi anche un cucchiaio di miele. In ogni caso facciamo bollire “u’ cuètte” e, sempre mentre “stè fèrve” (sta bollendo), prendiamo le cartellate e le posizioniamo nel tegame. Non appena il vincotto torna nuovamente in ebollizione, tiriamo fuori i “’ngarteddète” e le spolveriamo con un po’ di zucchero e cannella» – confusi da questo turbinio di espressioni dialettali ed impressionati dall’apporto calorico di quanto finora documentato, salutiamo e ringraziamo ancora una volta la nostra Lina Savino che, in questo mese di festività, potrebbe tornare a farsi sentire su queste colonne.

Più che l’albero… La ramagghìè di Natale

Prima di lasciarci, però, le chiediamo come fosse l’albero di Natale di una volta, quando la povertà era imperante: «L’albero consisteva in una “ramàgghiè” (grande ramo) “nzeppetète” (eretto, piantato) in un vaso. Al posto delle luci e delle decorazioni natalizie, appendevamo qualche caramella, dei mandarini e altri frutti di stagione. Nulla a che vedere con gli alberi che fortunatamente abbiamo oggi in casa».

LEONARDO FLORIO

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