Tutto, o quasi, su Tolotto
Dopo un week-end di concerti, Domenico “Tolotto” D’Addabbo risponde a una tempesta di domande
Quella che stiamo per presentarvi vuol essere una sintesi del percorso artistico di Domenico “Tolotto” D’Addabbo, e quella che abbiamo appena espresso è una pretesa irrealizzabile: come potrete presto vedere, infatti, i riferimenti non mancheranno, così come i ricordi, le riflessioni, le consapevolezze che vanno ad aggregarsi, identificando il nostro intervistato nella sua particolare (e particolareggiata) essenza umana personale. Ben contenti di aver potuto interloquire con lui, ecco – “non c’è trucco, non c’è inganno” – Tolotto e la nostra tempesta, quasi brainstorming, di domande.
Quanti anni ha e quando ha iniziato a suonare?
«Ho 41 anni (31.12.1978) e suono da quando ne avevo circa 8. Sono da sempre curioso rispetto alla musica e al ritmo. Iniziai a prendere lezioni di pianoforte, ma mi annoiavo e proseguii da autodidatta. La mia prima band risale a quando avevo 13 anni, suonavo il basso. Il primo concerto a 14. Fu a Conversano, nel 1992, durante una rassegna di jazz. Io e due amici avevamo messo su un gruppo rap: due voci, una tastiera Roland E-15 e una drum machine Roland TR-808. Per riempire un po’ il palco avevamo messo un altro amico accanto a noi: il suo unico compito fu di passare il concerto a guardare il pubblico mentre si teneva una mano sul “pacco”. I miei erano venuti ad ascoltarci e questa trovata li fece arrabbiare parecchio».
Come mai la scelta di chiamarsi Tolotto? Cosa vuol dire questo nome?
«Tolotto, o meglio Tolott’ (Tolòtte) alla turese, è semplicemente il soprannome della mia famiglia. A quanto ne so, deriva da “dulott”, un antico vocabolo che identificava il ceppo di uva selvatica su cui viene trapiantata la varietà da coltivare, e che aveva a che fare col mestiere di un mio antenato. È un soprannome che condivido con mio padre, mio fratello e tutto il ramo paterno della mia famiglia».
Quali gli artisti che l’hanno ispirata all’inizio del suo percorso musicale?
«Da bambino ho ascoltato tantissimo la musica che amava mio padre: Pino Daniele, De Gregori, Dalla e Battisti su tutti. Credo che le mie radici di cantautore arrivino da lì. Nel tempo ho perso per strada Battisti e verso i 15 anni ho scoperto De André e con lui un universo nuovo. Mio padre si dilettava a cantare accompagnandosi con la chitarra – cosa che ho ereditato – e così ho assimilato alcune canzoni da prima che ne abbia memoria. Nella mia testa suonano, con la sua voce e la sua interpretazione, “L’anno che verrà”, “Generale”, “Quanno Chiove”, “Pensieri e parole” in duetto con mia madre… Se vado ancora più indietro, ricordo me stesso a quattro-cinque anni, seduto davanti a un giradischi di plastica arancione, che ascolto i 45 giri delle Fiabe sonore seguendo la narrazione sul libro. Era una cosa che mi rapiva, quella voce che raccontava storie in quel modo carezzevole, con un suo ritmo e una sua musicalità. Caratteristiche che ho ritrovato poi nell’hip-hop che ho iniziato a seguire dopo le scuole medie».
Ci parli dei suoi vari progetti, dagli albori, passando per gli Uduchà ed il Piano B, fino a Citxileo.
«Negli anni ‘90 ho suonato e cantato soprattutto hip-hop e dancehall: scrivevo pezzi di protesta ingenua e manichea, disagio adolescenziale elevato a massimo sistema. Era una forma istintiva di autoterapia, in un periodo particolarmente difficile della mia vita. In quegli anni scrivevo senza sosta, di getto, tutto ciò che mi veniva in mente (ho a casa quaderni zeppi di appunti, versi, strofe, ritornelli mai tradottisi in vere canzoni).
La mia scrittura ha cominciato a migliorare quando mi sono affrancato da quell’autoreferenzialità, ma non tutto era da buttare: ci sono un paio di pezzi scritti in quel periodo che propongo ancora oggi dal vivo. Gli anni 2000 hanno segnato il cambio verso uno stile di scrittura più ragionato, anche se non ho mai abbandonato la tecnica del flusso di coscienza. Nel frattempo, come la maggior parte di noi, ero passato attraverso la riscoperta tardo-adolescenziale degli scrittori beat, trovando nel bop writing di Kerouac una legittimazione al mio stile, che aveva comunque bisogno di essere affinato.
Gli Uduchà, in cui ho militato tra il 2001 e il 2006, mi hanno permesso di sperimentare nuove forme-canzone, ma credo che gli unici risultati degni di nota di quel periodo siano due pezzi apparsi nel disco Pangea, che parlano entrambi di deliri: Pocomosso, in cui un innamorato illuso immagina di coprire a nuoto la distanza oceanica che lo separa dalla sua amata, ed Etilario, la storia di un alcolista che ogni volta che beve rivede davanti a sé lo spettro del rivale in amore, che ha assassinato. A posteriori mi chiedo se quei due non siano lo stesso personaggio, col protagonista di Pocomosso che tenta invano di ricostruire una situazione spezzata per sempre, e si punisce per questo. Tuttavia, gli Uduchà rappresentavano una formazione che non ho mai sentito realmente mia, nata per fare musica disimpegnata; per questo decisi di “passare al piano B” e recuperare le mie radici di cantautore in versi.
Tolotto e il Piano B è stato il progetto che ha definito lo stile che oggi posso dire mio. Ha rappresentato anche il consolidamento del sodalizio artistico con Alan Bagorda, amico da sempre, chitarrista eccezionale, che è ancora oggi il mio più stretto collaboratore.
Dopo un paio d’anni, comunque, ho dato un taglio a tutto e sono andato a vivere in Catalogna. Citxileo è stato il progetto reggae che ho portato avanti nei primi tempi a Barcellona. Lì ci ho passato più di dieci anni, suonando e studiando le percussioni brasiliane e quelle dell’Africa occidentale»
Come avviene la stesura dei suoi testi: sono intuitivi o è un labor limae che può protrarsi per molto tempo?
«Quasi mai compongo a partire dalla musica. Di solito l’input è un’intuizione forte, che mi appare in mente già in metrica declamata: può essere un ritornello attorno a cui costruire il resto della canzone, o un incipit, o ancora un brano di mezzo che avrà bisogno di un prologo e di un epilogo. Questo è per me l’elemento indispensabile, senza il quale il lavoro successivo non reggerebbe.
Credo di avere centinaia di canzoni finite in un vicolo cieco perché l’intuizione di partenza non era abbastanza forte da sostenerne la struttura. Le buone intuizioni hanno bisogno di cura e delicatezza: in certi casi un nucleo resta a maturare anche per anni, prima di diventare canzone. Il resto del lavoro, se la base è buona, è in discesa: flusso di coscienza, qualche aggiustamento metrico, e poi il testo resta chiuso per qualche settimana a decantare. Dopodiché lo riprendo in mano e, se continua a convincermi, faccio gli ulteriori aggiustamenti e inizio a costruirgli la musica intorno».
Di quali brani si compone la playlist in grado di racchiudere il suo percorso artistico, specie nelle sfumature più vicine al flusso di coscienza e alla ‘slam poetry’?
«“Pocomosso”, “Sorvolare” (Tolotto e il Piano B – disponibile su youtube), nata da una composizione per chitarra di Alan: un giro d’accordi che è quasi un volo e che per lui aveva un significato speciale. Ho cercato di rendergli giustizia con un testo che ne cavalcasse l’onda emozionale, senza banalizzarlo, accompagnandone la fluttuazione attraverso la storia della cetonia legata al filo di cotone che, quando il bimbo che l’ha catturata ne ha avuto abbastanza, viene rimessa nel suo terrario, dal quale guarda il mondo come se fosse una cosa staccata da sé.
“Lanterne”, forse il testo più slam tra questi, il più vicino anche come metrica alle mie radici hip-hop. È stata composta nello stesso periodo di “Sorvolare” e ne riprende lo sguardo sul mondo dal punto di vista di un coleottero, di una creaturina – e siamo tutti creaturine – che si affanna in imprese troppo grandi per sé, con l’illusione di cambiare tutto, e racconta di come questo affanno possa in effetti servire a cambiare qualcosa in se stessi, risultato che giustifica lo sforzo dell’impresa.
“Día huevo” è la versione in castigliano di “Il gallo ha fatto l’uovo”, scritta a quattro mani con Francesco Mastrangelo per i PuntinEspansione, inclusa nel loro “Trentenni sofisticati”. Iniziai a tradurla per scherzo e poi, visto che sembrava funzionare, coi Citxi decidemmo di registrarla come singolo. Il testo gioca sulla propensione che ha l’industria musicale a strizzare i musicisti come fossero galline ovaiole.
Concludendo coi Quebraltar, la base musicale di “L’età del ferro” è opera di Davide Ramunni, bassista di Quebraltar. Si tratta di una delle ultime cose che ho scritto, ma nasce da un’idea che risale a una ventina di anni fa. C’erano queste immagini che mi vorticavano in testa come una tempesta di sabbia e acqua, come succede alcune volte da noi quando piovono quelle nuvole gialle che lo scirocco porta qui dal Sahara. Hai mai visto Wall·E? Ecco, immaginavo un mondo simile a quello, abbandonato e pieno di ferraglia, in cui l’ultima forma semovente stesse lentamente esaurendo la carica vitale, e mi domandavo, in un simile contesto quasi senza vita, cosa succederebbe all’ultima energia rimasta se per sua sfortuna avesse la vocazione del Bodhisattva. Con la cessazione dello scorrere delle cose, il Samsara si fermerà?».
Volendo “trasmigrare” alla successiva questione, ci parlerebbe di questo Full Live Dub Poetry?
«FLDP è lo spettacolo live dei Quebraltar, è il compendio di vent’anni di scrittura condensati in un’ora e mezza. Per realizzarne la parte letteraria (giacché per le musiche il merito va ad Alan, Davide e al batterista Ambrogio Netti) ho ripreso in mano la mia produzione, ho tagliuzzato, aggiustato, lucidato. Alcuni brani sono stati rimaneggiati a fondo prima di essere riproposti. E ho aggiunto una manciata di lavori recenti. È Full Live nel senso che abbiamo voluto proporre una performance completamente dal vivo, senza basi registrate, né computer, ma dai suoni particolarmente curati».
Su Youtube abbiamo trovato il video “La fisica a casa Tolotto”. Ha studiato fisica in passato?
«No, l’autore di quel video è mio fratello, astrofisico. Io, umilmente, sono un quasi-psicologo. Mi manca solo discutere la tesi, in neuropsicologia. Ma quando ci mettiamo a filosofare vengono fuori idee interessanti».
Cosa pensa della scena musicale turese? Se fosse in Amministrazione Comunale, cosa farebbe per la musica e i musicisti turesi?
«Cinque o sei anni fa, tornato a Turi per qualche mese, fondai la banda di percussioni brasiliane Assurd Batukada (www.assurdbatukada.it). Era un tentativo di impiantare a Turi un laboratorio permanente di percussioni che funzionasse come un aggregatore giovanile, puntando sul fatto che per suonare in una situazione simile non è necessario avere una formazione musicale. Ho cercato appoggio nelle istituzioni locali, senza trovarlo. Ho avuto l’impressione che nessuno cogliesse le potenzialità educative e socializzanti di una realtà simile. Abbiamo continuato da soli, con le nostre forze. Credo che molti amministratori siano sinceramente convinti di saper ascoltare. Ma l’ascolto e l’apertura sono discipline, si imparano con abnegazione, umiltà, sacrificio».
Quale eventuale influenza hanno avuto le origini turesi sulla sua musica e sui suoi testi?
«Ho sempre avuto un rapporto complicato con Turi, e viceversa. L’ho raccontato nel 1995 in un pezzo intitolato “Branco”. Lo suono ancora oggi, è il più vecchio testo tra quelli che propongo. Dice: “Branco chiama lupo – o non ci sei. E un lupo, solo, non vive. Lupo prende branco e non lo lascia mai, da quando nasce fino a che muore”. Oggi non la penso così – c’è speranza, accidenti – ma il dolore di quei giorni mi sembra ancora così sincero che non l’ho voluto ignorare. E poi è uno dei brani preferiti di Alan. Più in generale, ho sempre trovato particolarmente angosciante dovermi rapportare coi miei compaesani e ciò mi ha spinto a isolarmi e far volare l’immaginazione. Ho scoperto solo in età adulta di avere la sindrome di Asperger. Da giovane, tutto ciò che avvertivo era una distanza incolmabile dagli altri. Se avessi trovato supporto allora, forse le cose per me sarebbero state meno accidentate, ma di sicuro non avrei percorso lo stesso cammino».
Come si vede Tolotto in futuro?
«Sono così ben sintonizzato col mio presente che il futuro mi sembra un concetto troppo nebuloso da poter essere afferrato. So che scriverò perché ne ho la necessità, ma sulla forma finale che prenderà il mio materiale influiranno troppi fattori fuori dal mio controllo. Ma se devo esprimere un desiderio, vorrei pubblicare qualcosa in forma di libro. Senza fretta, magari fra dieci o vent’anni».
Commentare questa conversazione non è facile, ma siamo certi di poter sottoscrivere, in calce, senza alcun indugio, la distintiva bellezza artistica, come umana, di Domenico “Tolotto”.
LEONARDO FLORIO