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Cultura

Diciottenni di ieri, nelle pagine di Tazzer

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Parole e ricerca per raccontare una generazione chiamata in Guerra:
“I ragazzi del Novecento”

Vorremmo mettere a confronto due secoli, due generazioni differenti, due realtà storico -sociali ben diverse, per comprendere quanto e cosa sia cambiato. In bene o in male non possiamo dirlo noi. Sicuramente tanto è cambiato.

Il corso della storia ci ha condotto a quelli che siamo oggi. Ragazzi, genitori, cittadini con libertà di scelta e opinione, in grado di scrivere il proprio futuro e percorrere strade verso sogni e obiettivi.

Ma non è stato sempre così. È solo un pregio di noi abitanti del XXI secolo, che ogni giorno dovrebbero dire “grazie” a chi con sofferenze, rinunce, sacrifici, ardore, ha speso la sua vita per la libertà.

Un capitolo di storia italiana, quella contemporanea, è stato sfogliato e analizzato nel pomeriggio di martedì 20 marzo presso la Casa delle Idee e nella mattinata del 21 in un liceo putignanese.

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Ospite di “Didiario – Suggeritori di libri”, Sergio Tazzer, presidente del CEDOS – Centro di Documentazione Storica sulla Grande Guerra, autore de “Ragazzi del Novantanove”, Kellermann Editore. Nel primo centenario della fine della Prima Guerra Mondiale, siglata dall’armistizio dell’11 novembre 1918, infatti, Tazzer, classe 1946, trevigiano, giornalista e ricercatore, ha partecipato a due incontri. Il primo a Turi, organizzato in collaborazione con l’Associazione Nazionale Bersaglieri sezione “A. Pedrizzi” di Turi. Accanto all’autore, sono intervenuti il generale B. EI Emilio Motolese, Alina Laruccia, presidente dell’a.p.s. “Didiario – Suggeritori di libri”, Domenico Resta, storico. Letture di Angela Antonacci. Mercoledì 21 marzo, Sergio Tazzer ha parlato ai diciottenni, a Putignano ospite del Polo liceale “Majorana – Laterza”.

Anche la Prima Guerra Mondiale ha avuto la sua “meglio gioventù”. La cronaca militare dell’epoca così la descriveva nell’ordine del giorno firmato dal generale Armando Diaz il 18 novembre 1917: “I giovani soldati della classe 1899 hanno avuto il battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico”. E aggiungeva, immortalandoli per sempre: “Li ho visti i ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora”.

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La letteratura ha raccontato, con la penna di Gabriele D’Annunzio, il passaggio tremendo di un’intera generazione di adolescenti dalla famiglia alla trincea: “La madre vi ravvivava i capelli, accendeva la lampada dei vostri studi, rimboccava il lenzuolo dei vostri riposi. Eravate ieri fanciulli e ci apparite oggi così grandi!”. Quei grandi fanciulli erano nati l’ultimo anno dell’Ottocento: da qui il loro nome e cognome, “I ragazzi del ‘99”. Fu l’ultima leva di 265mila italiani chiamati a “resistere, resistere, resistere!” sul fiume Piave, come esortava Vittorio Emanuele Orlando, l’allora presidente del Consiglio. Giovani di diciott’anni, a volte non compiuti, che hanno contribuito in modo decisivo “alla Vittoria”, come si diceva, e all’indipendenza dell’Italia il 4 novembre 1918. Spesso a costo della vita, perché decine di migliaia di loro non sono più tornati dal fronte del Nord-Est. Un dato certo non esiste, in un conflitto che per l’Italia ha significato seicentomila morti e quasi un milione di feriti, di cui la metà mutilati.

L’Italia, si sa, entra in guerra il 24 maggio 1915, come si rievoca nel celebre “il Piave mormorò: non passa lo straniero!”. Anche questa canzone si deve a un giovane fante, Luigi Saccaro. A lui si rivolse, visitando i soldati impegnati sul Piave, il re Vittorio Emanuele III. Gli chiese come vedesse la temibile avanzata dell’esercito austro-ungarico, dopo la già vissuta e drammatica disfatta di Caporetto a fine ottobre del 1917. Il soldato semplice, Saccaro Luigi, rispose: “Fin qui arriverà il nemico. Ma da qui non si passa”. Parole che sono diventate melodia nell’inno tuttora suonato nelle cerimonie di Stato.

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Ma la vera “leggenda del Piave” fu quella dei ragazzi “abili e arruolati” di gran corsa, perché bisognava rinforzare l’ultima linea prima che fosse troppo tardi. “Oggi dall’Adige all’Adriatico le nostre armate passano all’attacco contro gli italiani”, comunicavano, trionfanti, i bollettini del comando austro-ungarico. E i soldati tedeschi sfidavano gli italiani con sicumera: “Andare Bassano bere caffè”. Proprio in quelle stesse e tragiche ore sul muro di una casetta semi-distrutta e abbandonata una mano ignota scriveva la struggente “risposta” italiana: “Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati”. Era l’ora della verità per tutti. E l’arrivo di questi giovani, molti imberbi, che cantavano con lo spirito innocente e temerario tipico dell’età e dell’epoca di sacrifici, fu un’iniezione di coraggio e di tenerezza per i veterani, che erano stanchi e demoralizzati da tre anni di conflitto sanguinoso, dal freddo, dalle malattie, dalla fame. E poi la nostalgia di casa.

In tutto sono state ventisette le classi chiamate alle armi, la più vecchia quella degli uomini nati nel 1874. Perciò questi diciottenni che giungevano con passo svelto ma poco marziale, impetuosi come il fiume che dovevano difendere e generosi come la vita che molti di loro avrebbero dato per l’Italia, furono subito percepiti alla stregua di fratelli minori. Fratelli che infondevano speranza nel momento più buio. Giovani del popolo -figli di contadini, artigiani, falegnami- che bisognava paternamente proteggere, perché anche il loro addestramento era stato rapido: sul Monte Grappa e sul Piave non c’era più tempo. “Sul ponte di Bassano noi ci darem la mano”, dice un’altra malinconica canzone, evocando un amore lontano.

L’ultimo “ragazzo del ‘99” è scomparso a 107 anni nel 2007. Si chiamava Giovanni Antonio Carta, caporal maggiore di fanteria della Brigata Sassari e Cavaliere di Vittorio Veneto. Ma c’è chi dice che non fosse l’ultimo, come si conviene a una leggenda.

Dopo accurate ricerche, l’autore ingaggia un serio tentativo di censirli uno a uno, cogliendoli nel terreno che li vide agire, nelle lettere spedite a casa, nei reperti oggi orgogliosamente custoditi dagli eredi e spiega che quei baldi erano “giovani borghesi e figli delle classi subalterne, spronati dalla propaganda a difendere la loro terra, la loro casa e la loro famiglia, il loro onore e quello dell’Italia”.

Tazzer, però, non intende fare agiografie né aggiungere parole ai “paroloni” contenuti nelle altisonanti motivazioni di decorazione al valor militare, scritte nello spirito del tempo, riproposte dall’autore proprio per aiutarci a coglierlo. No, Tazzer li racconta nel loro essere “ragazzi” nella vivezza dei loro giorni così carichi di speranze e ideali. Nelle loro paure, nelle loro debolezze che però si aprono a gesti eroici.

“Questo libro vuole ricordarne alcuni, nei momenti di tranquillità delle retrovie, come in quelle bestiali della battaglia, in modo da farne memoria” – ha aggiunto Tazzer. E la motivazione è semplice e vera perché constata la condizione di un paese dalla memoria breve (oltre che di parte). “Semplicemente perché lo meritano, in quest’Italia distratta”. “Ho riportato le memorie come furono scritte, con gli stessi errori di ortografia e di sintassi, ed anche in dialetto, quando così sono state trovate”.

Così c’è Francesco Bombardiere, u surdatu picciriddu, per statura ed età, venuto al nord – per combattere – dalla provincia calabra. Si cucina due rape nel giorno del suo compleanno. Luigi Panza nel suo corredo da soldato ha gavetta, mutande, tazza, borraccia e cucchiaio tra le altre cose tutte diligentemente catalogate. Il cucchiaio, infilato nel taschino sul petto, gli sarà preziosissimo: per fermare una pallottola al cuore. Solo due storie, tra tante.

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