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Attualità

Ero in carcere e siete venuti a trovarmi

carcere e giovani

Al di là di quel portone inaccessibile e controllato a vista, “Documenti di identità, prego”, al di là di quelle mura in pietra invalicabili, si apre un mondo. Le mura diventano persone. Occhi che scrutano, con curiosità, a volte diffidenza. Mani che stringono. Storie che si intrecciano. Si parla di “missione nel carcere di Turi”. In realtà è uno stravolgimento del modo di guardare le cose. Le mura del carcere, che da sempre vive al centro della comunità turese eppure resta così distante e lontano dalla vita vera, quella reale e quotidiana, per quattro giovani turesi non saranno più fatte di pietra. Saranno occhi, mani, sorrisi. Magliette tutte uguali, da cui emerge una stampa dello slogan della missione “Gesù, mi dai la forza di essere migliore”; al collo un crocifisso; nel cuore un po’ di timore che nasce dal dover e voler affrontare qualcosa che non si conosce, o che almeno si conosce soltanto in parte, una parte spesso condita da pregiudizi. Non ne hanno Anna Lisa, Vincenzo, Miriam e Valentina. Animati dal significato profondo del messaggio evangelico, da quel “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”, hanno varcato le soglie della casa di reclusione turese facendo  soltanto un passo in più, fuori dalla villa e dalle strade che si percorrono ogni giorno. Un passo che ha avvicinato persone che, al di fuori di ogni retorica, e al di là dei processi di colpa e redenzione, spirituali, prima ancora che sociali, sono, comunque, in cammino. Come tutti. Storie spesso dolorose e di sofferenza, in cui la scelta di fare il male si è inserita in contesti di vita vissuta ai margini di tutto.

carcere e giovani

Ma di tutto resta una sola consapevolezza, mista a stupore, nelle parole di Anna Lisa, “Molti di loro sono giovani, hanno la nostra età…” Il timore, una certa ansia all’ingresso, ben presto si trasforma in silenzio, un silenzio che riflette e cambia, e poi in adrenalina. In  voglia di parlare e di ascoltare. Infine in voglia di pregare, di consegnare tutto nelle mani di Colui che non giudica ma salva. Nella consapevolezza, per una volta, di aver dato tutto in un incontro.  Ma anche di aver preso molto. “Abbiamo la sensazione” è un pensiero comune una volta usciti “di aver ricevuto molto di più di quel che abbiamo dato”. La missione non ha avuto bisogno di troppe parole. Esserci spiegava tutto quello che non viene mai detto. Oltre le sbarre o le stanze senza volti, o le pareti in cui il futuro sembra così lontano e incerto, per un giorno, anzi, per quattro giorni,  da sabato a martedì, si sono stagliati altri sorrisi. Altri occhi. Fogli a colori in cui ognuno dei missionari aveva stampato un’immagine, un qualcosa che potesse parlare di sé, che potesse raggiungere gli interlocutori oltre le parole. C’è chi ha scelto un prato, chi una bandiera, chi un campo di fiori. E poi ci sono i racconti dei detenuti. Che, seppure lontanissimi da quei campi di fiori, finiscono per essere racconti di giovani  che raccontano se stessi ad altri giovani. Finchè non ci sono più detenuti e missionari, ma coetanei che si scambiano i loro sguardi sul mondo, in una relazione in cui nessuno perde, ma in cui ognuno guadagna. Resta, dopo i giorni dell’adrenalina e della gioia, dopo anche le lacrime quando quella porta si chiude e la missione finisce, la sensazione di dover fare di più, la consapevolezza di avere, al di là di quelle mura e a pochi passi dal proprio cuore, distese di fiori e prati da poter coltivare o osservare senza più paura.

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