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“Non è come appare” un libro da leggere

di pace

Giovedì 28 novembre la libreria Eleutera di Turi ha accolto, nella sua atmosfera di calore e informalità, lo scrittore Giuseppe Di Pace per la presentazione del primo romanzo dell’autore, Non è come appare.

Giuseppe Di Pace è vicequestore della Polizia di Stato. Laureato in giurisprudenza, perfezionato in diritto penitenziario e minorile ed esperto in criminalistica, ha diretto per molti anni il Gabinetto di Polizia Scientifica della Puglia. È originario di Margherita di Savoia, ma vive e lavora a Bari.

Nelle vesti di presentatrice Alina Laruccia, che ama definirsi libraia e non commerciante, per la sua naturale propensione a vendere cultura, non meri agglomerati di pagine senz’anima.

“Amiamo i libri che presentiamo e presentiamo i libri che amiamo”: una frase che spiega bene la scelta di Alina di dare voce, nella sua libreria, al libro Non è come appare, un’opera prima che definisce “straordinaria, asciutta, nordica”.

In un periodo in cui si è smarrito il senso della scrittura, in cui si stampano libri con storie in fotocopia e scritte male, questo libro segna una rottura, grazie ad uno stile mai banale.

E questo l’autore stesso lo sa, visto che fa scaraventare contro il muro al suo protagonista, il commissario Rinaldi, uno dei best seller rivelazione del momento, reo di contenere in poche pagine troppe storie, raccontate in maniera superficiale.

Non è come appare è ben altro.

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È un noir d’ispirazione americana, che prende avvio dalla morte di un uomo, apparentemente un “povero cristo”, un barbone, ucciso nella parte vecchia di Bari, quando in città tutti sono attratti da un duplice omicidio di mafia, di maggiore richiamo per giornalisti e televisioni. Il commissario Rinaldi è l’unico ad essere attratto dalla morte di quell’uomo che non fa notizia. Da quel momento per lui ha inizio “un viaggio a ritroso nel tempo e avanti geograficamente”, tra Bari e l’Estonia, un viaggio che partendo da lontano, dal dopoguerra, lo porterà a scoprire cose sempre più drammatiche.

“È un viaggio all’inferno quello del commissario Rinaldi” ammette Giuseppe Di Pace, “una storia dura con un linguaggio duro”, che tante critiche hanno portato all’autore, accusato di aver usato un lessico volgare.

“Tutto deve essere credibile, verosimile, e il linguaggio si adatta alla storia di violenza e di soprusi che racconto”, spiega l’autore; “se il linguaggio risulta disturbante, è quello che volevo”.

Non solo il linguaggio è stato oggetto di disapprovazione, ma la stessa città di Bari si è sentita offesa dal modo in cui il narratore l’ha dipinta. “Il mio è stato un atto d’amore verso la mia città” replica Di Pace.

Certo, il quadro che di Bari traspare nel romanzo è profondamente duro: è quello di una città che uccide i sogni, nella quale fanno carriera solo i raccomandati e i figli di papà e nessuno si lamenta, nessuno protesta.

“Questo mondo non mi piace perché legato agli interessi. Per essi si sacrificano anche le verità” chiarisce Giuseppe Di Pace. “Sono voluto andare nei luoghi oscuri della mente umana, dell’animo e della mia città. Ho voluto mettermi nei panni del male”. Solo così se ne possono capire le ragioni.

L’autore si schiera contro la televisione, contro una politica per la quale i voti si prendono facendo proclami e non lavorando, contro una società che premia i forti e condanna i deboli, contro tutta una categoria di giudici, medici legali, poliziotti, carabinieri, avvocati, che sembrano attori navigati in quella che definisce “commedia post-delictum”, impegnati più all’apparire in televisione che a cercare la verità.

Si scaglia, in maniera decisa, contro le persone che hanno troppe certezze.

“Il poliziotto e il carabiniere devono vivere di dubbi”. Ci sono indagini solo apparentemente chiare, indagini in cui ci sono dei colpevoli ideali che, però, spesso colpevoli non sono.

A chi gli fa notare che è più facile per lui, dato il suo lavoro, scrivere un racconto di morte, lo scrittore replica di non aver ragionato da funzionario di polizia.

“Ho cercato di togliermi la divisa perché il delitto vero non è letterario. Puzza di sangue rappreso, di stanchezza, di mancato sonno. Il mio mestiere è un osservatorio privilegiato sull’uomo, ma la realtà va ben oltre ciò che è stato scritto”.

Sicuramente molto di autobiografico sarà confluito nel commissario Rinaldi, un eroe fatto di carne e di sangue, vulnerabile, capace di interrompere una scia di dolore senza potersi mai liberare dal suo.

Non sappiamo se il commissario Rinaldi continuerà a vivere nei romanzi futuri di Giuseppe Di Pace. L’esortazione di Alina Laruccia, a chiusura della presentazione, è stata di continuarne a scrivere. A tutti gli intervenuti ha suggerito, poi, di leggere il libro.

In un momento di crisi non si possono sprecare i propri soldi per leggere qualcosa che non merita il nostro tempo.

Non è come appare bisogna leggerlo”.

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