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LA TESTIMONIANZA DI MATTEO FIORENTE: “ANCHE IO HO LAVORATO NEL CARCERE DI TURI”

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Ho
lavorato nel carcere di Turi, appena dopo il congedo militare. Trovai il lavoro
grazie ad un agente del Penitenziario che un giorno venne a casa mia, a nome
della amministrazione penitenziaria, per incontrarmi: voleva darmi lavoro. Ho
lavorato per quattro anni. Dal 62 al 66 insieme a mio fratello, che vive da 35
anni in Belgio, il fratello della mia fidanzata di allora e Antonio Palmisano,
che attualmente è “meccanico”.

Alle
16 terminavo la mia giornata di lavoro. Spesso però rimanevo oltre l’orario
prestabilito perché in quel periodo venivano fatte delle lezioni ai detenuti.
Qualora fosse venuto qualcuno a fare un’ispezione, e non avesse trovato nessuno
a lezione, non mi avrebbero pagato. Mi sono sacrificato anche in questo.
Tuttavia, il maestro ha sempre fatto finta di non conoscermi all’esterno.

Lo
stesso ho fatto con il maestro Romeo rimanendo con i detenuti nella cella
adibita allo studio musicale.

Ho
messo intonaci e mattoni anche nella chiesa del carcere e messo a punto i
pavimenti. Nel ‘63 ho aiutato a montare l’ascensore per portare il cibo ai
detenuti dei piani superiori. Ricordo che per dipingere all’interno
dell’ascensore un altro mio amico doveva mantenerlo fermo tramite i cavi.

Nella
foto che vi ho fornito ci sono io ritratto insieme a mio fratello e l’altro
ragazzo che si chiamava Intaglietti. Eravamo giovanissimi, all’epoca.

Sono
uno dei pochi ancora viventi della vecchia guardia degli “intonachisti” e
pittori murali. Insieme a me Luca e Vito Pettico e un mio caro amico Tonino di
cui non ricordo il cognome. A quei tempi si lavorava sodo per preparare la
calce, sotto pioggia e neve. Sveglia alle 5 di mattina e subito sul posto di
lavoro a preparare il materiale per riparare i muri. Sono ancora capacissimo di
salire sulla scala in equilibrio per svolgere il mio lavoro. Adesso è molto più
semplice perché gli operai hanno le impalcature, più sicure e solide degli
appigli fortunosi di un tempo. Rischiavamo la vita ogni giorno.

Approfitto
di questa occasione per difendere la mia categoria. Tutti i giornali si
occupano periodicamente di riportare storie di lavoratori di ogni genere.
Nessuno, però, prima di voi, ha avuto interesse a raccogliere informazioni
sulla nostra professione.

L’intonaco
di una volta dura molto di meno di quello attuale. Prima lo si predisponeva
direttamente addosso alla pietra o ai tufi, bagnando prima le pareti con acqua
e cemento. Ora invece l’intonaco viene messo dopo la ”spruzzatura”, e in questo
modo è facile che si crei un rigonfiamento d’acqua all’interno. I nostri lavori
sono ancora lì. Quelli attuali devono essere rifatti ogni vent’anni.

Vorrei
abbracciare tutti i miei colleghi ormai passati a miglior vita, con i quali
abbiamo fatto tante battaglie sul lavoro. Ne cito qualcuno, e mi scuso se
dimentico qualcuno: Uccio Maurantonio, Cervellera, Pinuccio Camposeo, Pasquale
“u barlitten”, Michele di Casamassima, Peppino Leogrande.

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