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“La macabra danza del virus”

Il prof. Onofrio Resta

Il prof. Onofrio Resta: “La situazione pugliese è preoccupante ma non drammatica”. Per evitare la paralisi degli ospedali, è indispensabile “chiudere le scuole e avere il massimo rigore sulle relazioni sociali”

A marzo, nella fase più concitata dell’assalto del Coronavirus, si provvedeva a riconvertire in tempi record il padiglione “Asclepios” del Policlinico di Bari in centro Covid. A guidarlo, in qualità di Direttore del Reparto UTIR Covid, veniva chiamato il Prof. Onofrio Resta. In questa “seconda ondata”, il luminare turese ritorna in trincea, mettendo la sua esperienza nuovamente al servizio del nostro sistema sanitario.

Nonostante l’incessante lavoro, cui si affiancano i seminari divulgativi e i costanti aggiornamenti, il professore ci ha concesso l’opportunità di intervistarlo, facendo finalmente chiarezza sulla reale situazione che la Regione Puglia sta affrontando in queste settimane. Non c’è spazio per le opinioni, da esperto uomo di scienza, il prof. Resta parte dall’analisi e dall’interpretazione dei dati, che restituiscono una fotografia un po’ più rincuorante rispetto alle versioni apocalittiche che affollano i vari canali di comunicazione. Insomma, prendendo in prestito un frammento delle dichiarazioni del professore: “La situazione pugliese è preoccupante ma non drammatica”.

Professore, si ha l’impressione che la “seconda ondata”, seppur prevista, sia sfuggita al controllo. Concorda?

«La seconda ondata era prevista ma nessuno pensava che si manifestasse con tale intensità. Un aspetto da considerare è quello della distribuzione dei contagi: sento affermare quasi con sorpresa che, in zone in cui la prima ondata della pandemia è stata più aggressiva, oggi ci sono meno malati; viceversa, nei territori che sono stati toccati dal virus con minore intensità, come ad esempio la Puglia, si registrano maggiori casi. In realtà, questo scenario non fa affatto a pugni con le regole della biologia: il Covid, come altri agenti virali, può dare un’immunità. Questa è la principale ragione che giustifica la sperequazione dei casi positivi al Covid tra le varie regioni italiane. L’altra è di carattere organizzativo-gestionale: purtroppo, durante l’estate – complice la voglia di riprenderci quello che avevamo perso durante il lockdown – c’è stato un allentamento della soglia di attenzione da parte nostra e degli organi governativi. E ora paghiamo il prezzo della riduzione della cautela e della messa in campo delle misure che erano riuscite a ridimensionare di molto la parte finale della prima ondata».

Ci sono differenze sostanziali tra la prima e la seconda fase della pandemia?

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«La situazione pugliese è preoccupante ma non drammatica. A parlare sono i numeri.

Casi positivi – «Nella prima ondata, ovvero da marzo al 15 agosto, avevamo in Puglia pressappoco 4.600 persone positive al Covid-19. In questa seconda ondata, al 9 novembre, abbiamo verificato la presenza di circa 21.500 contagi. Un dato che può sembrare abnorme ma va letto alla luce del numero di tamponi eseguiti, che è aumentato a dismisura e ha consentito di individuare l’amplia platea di soggetti asintomatici o paucisintomatici che nella prima fase dell’epidemia sfuggivano ai conteggi.

Ricoveri – Per quanto riguarda la tenuta degli ospedali, ad oggi abbiamo poco più di 1.000 pazienti ricoverati e circa 140 posti occupati in rianimazione. Dunque, sui 21.500 contagiati della seconda ondata, annotiamo il 5% di ricoverati e lo 0,8% di pazienti in terapia intensiva. Valori che sono nettamente più bassi della prima ondata. Il bagaglio dei posti letto, almeno per il momento, non è sproporzionato rispetto al quadro epidemiologico e tra l’altro la Regione si è impegnata a raggiungere i 3.000 posti letto destinati ai pazienti Covid entro la fine di novembre, coinvolgendo anche alcune cliniche private.

Decessi – Stesso discorso vale per il numero dei decessi, sceso proporzionalmente. Nella prima ondata, abbiamo perso 553 pazienti su 4.600 casi positivi; il bollettino del 9 novembre segna 280 morti dall’inizio della seconda ondata, che però vanno “spalmati” su 21.500 positivi. Si deduce che la letalità del virus è molto più bassa; quello che è alto è l’indice di contagio, influenzato come dicevamo dai milioni di tamponi che si stanno eseguendo».

Siamo al collasso della sanità pugliese?

«Sul piano del sovraccarico degli ospedali, i dati raccolti fotografano una situazione che ha retto all’urto della seconda ondata e presenta ancora discreti margini di lavoro nei reparti. Il nodo centrale è cosa succederà nei prossimi giorni: se nella prima fase l’inverno era alle nostre spalle, oggi lo abbiamo davanti ed è facile ipotizzare che i contagi possano salire. Il punto è che nessun sistema sanitario al mondo può mantenere ritmi così imponenti di ricoveri, anche perché – inutile nasconderlo – i posti Covid vengono sottratti alla normale degenza e ci sono altre patologie, come quelle oncologiche, che non possiamo trascurare. Ecco perché è vitale che vengano assunte misure di salute pubblica orientate a far abbassare la curva dei contagi».

Condivide la scelta della Regione di sospendere le lezioni in frequenza in tutte le scuole?

«Proprio per le considerazioni esposte finora, sono assolutamente d’accordo con il lockdown e la sospensione delle lezioni in presenza disposta dal Governatore Emiliano. Su quest’ultimo aspetto, va fatta chiarezza: il problema non è il numero di docenti, operatori scolastici o studenti che contraggono il virus, il problema è tutto ciò che ruota attorno al “pianeta scuola”, dagli incontri alle relazioni interpersonali che favoriscono la possibilità di assembramenti.

Un paio di giorni fa, ho presentato un lavoro recentissimo, pubblicato dai ricercatori dell’Università di Edimburgo sulla autorevole rivista “Lancet Infectious Diseases”, in cui si dimostra che tra i fattori che fanno aumentare l’indice di riproduzione (Rt), ossia la capacità del virus di diffondersi, la scuola incide per il 24%, quasi al pari degli eventi pubblici che pesano il 30%. La chiusura delle scuole, inoltre, è la seconda misura più rilevante per limitare il numero dei contagi (dopo 28 giorni si registra un calo del 15%), mentre, ad esempio, la richiesta di restare a casa permette di fermare la corsa del virus appena del 3%. Altra riflessione è che, se è vero che i bambini, fortunatamente, si ammalano poco avendo un sistema immunitario resistente, è altrettanto vero che diventano fonte inconsapevole di contagio per i genitori e soprattutto per i nonni, i soggetti più fragili che abbiamo il dovere di tutelare. Si desume che occorra applicare il prima possibile il massimo rigore alle relazioni sociali».

A marzo aveva sostenuto l’importanza di potenziare la medicina territoriale. Il suo appello è caduto nel vuoto o si è fatto qualche passo avanti?

«È una pecca atavica della sanità italiana e soprattutto meridionale, basta pensare alla Calabria. Si sta cominciando a fare qualche timido passo ma è molto poco. Come ho avuto modo di ricordare, la battaglia la facciamo negli ospedali, la guerra si combatte sul territorio con il supporto dei medici di medicina generale. Purtroppo, la medicina territoriale, determinante in questo contesto, non sta rispondendo adeguatamente, non per colpa degli operatori ma poiché, oltre a qualche discrasia di ordine organizzativo, abbiamo sempre pensato che la panacea fosse riempire gli ospedali. Il modello “ospedale-centrico” non funziona: non possiamo pretendere che ci siano tanti posti letto tutti contemporaneamente disponibili. Molti dei ricoverati paucisintomatici potevano essere trattati a domicilio, come si è fatto in altre nazioni dove funziona meglio la gestione e la coordinazione dei setting medici per i pazienti più leggeri».

Il sistema dei tracciamenti, per stessa ammissione dell’assessore Lopalco, è “saltato”. I test sierologici possono essere una soluzione valida?

«In un discorso di screening demografico, possono aiutare a capire come evolve il profilo epidemiologico della pandemia. Tuttavia, il “gold standard” per accertare la positività al virus resta il tampone naso-faringeo, con tutti i limiti intrinseci che l’esame ha dimostrato. Difatti, il test non ha una sensibilità completa e, talvolta, può restituire “falsi positivi”: si va a controllare il materiale molecolare che può essere il residuo di un virus già morto e quindi innocuo»

Come procedono le sperimentazioni sul plasma iperimmune come terapia?

«Lo stiamo testando anche in Puglia, all’interno del progetto nazionale “Tsunami”. Al momento non c’è alcuna indicazione certa all’uso. Leggo che sta avendo successo un altro approccio terapeutico, quello degli anticorpi monoclonali. Si tratta di proteine, prodotte in laboratorio, progettate per bloccare l’aggressione e l’ingresso del virus nelle cellule umane. La Food and Drug Administration (FDA) ha concesso l’autorizzazione per l’uso di emergenza, ovvero limitatamente a pazienti ad alto rischio di ospedalizzazione. Sicuramente è uno strumento in più nel trattamento del Covid-19 ma bisogna sperimentarlo su più ampia scala prima di accertarne scientificamente l’efficacia».

Corrisponde al vero che entro dicembre saranno disponibili le prime dosi di vaccino contro il Covid-19?

«Quando si parla di ricerche scientifiche è difficile definire con precisione le tempistiche. Di certo siamo vicini al traguardo e questa è una notizia che ci dà un po’ di respiro; tuttavia, agli annunci devono seguire prove sul campo, rigorose e valide. È indubbio che ogni sforzo si stia indirizzando verso il tassello determinante: fermare sul nascere i contagi per evitare l’assalto al sistema sanitario, una circostanza che, come spiegato, impedirebbe di curare i casi Covid più severi e le altre malattie che possono essere più pericolose e dannose, mi riferisco alle patologie oncologiche o a quelle che arriveranno in seguito alle complicazioni dell’influenza, l’altro virus “cugino” del Covid».

Abbiamo appreso che è in corso uno studio sull’andamento dei casi all’interno della “seconda ondata”. Può anticiparci qualche riflessione?

«Stiamo preparando un lavoro che compara la prima parte della seconda ondata (dal 15 agosto al 31 settembre) con la seconda fase, quella che stiamo vivendo. Nella prima parte, i pazienti sono più giovani e hanno meno comorbidità; a fronte delle maggiori complicazioni cardiache, si rileva un ridotto numero di accesso alle terapie intensive e di decessi. In sostanza, parliamo dei ragazzi che sono andati in vacanza ad agosto – magari in zone a rischio come Grecia, Spagna e Francia – che, in percentuale, raramente hanno avuto bisogno di cure ospedaliere ma hanno riaperto la macabra danza del virus, portando gli ospedali a riempirsi nuovamente. Nella seconda fase, invece, il quadro si va aggravando poiché sono entrate in gioco tutte le situazioni di relazione sociale, tra cui la riapertura della scuola, che offrono terreno fertile alla diffusione del Covid».

Fabio D’Aprile

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