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Cultura

CE TÈNE TÈRRE, TÈNE ‘UÈRRE

dialetto ciliegie (1)

Istantanee filosofico-lessicali di una giornata di raccolta

“Intorno alla campagna, ai suoi cicli, gira l’intera esistenza. Dai campi, dalla fatica, dall’abilità dei suoi gesti, l’uomo trae sostentamento e considerazione sociale. Impastato con la stessa terra, il contadino le è riconoscente e, allo stesso tempo, la rispetta, la teme per tutte le sue imprevedibilità. Il fato, poi, completa il quadro intrecciando il duro lavoro di ogni mattina con l’adorata volontà di Dio. Tutto dipende dal cielo e dal proprio sudore. Senza ribellione. Un giorno dopo l’altro, un raccolto dopo l’altro perché la fatica dei campi è, in fondo, l’arte di saper aspettare”.

Le considerazioni appena riportate appartengono al prof. Raffaele Valentini e sono contenute nel suo prezioso volume “Parole a memoria”, un vero e proprio elogio alla verbalità e alla proverbialità turese. Come si vedrà, abbiamo attinto a piene mani da questo lavoro, nel tentativo di ricreare su queste pagine l’atmosfera di una giornata lavorativa, trascorsa tra ‘na pennìsce e l’àlde. Di seguito riprodurremo alcune delle innumerevoli suggestioni linguistiche e filosofiche offerte dal microcosmo che viene a nascere al cospetto dei silenti ciliegi: da una parte ‘u patrùne o la patròne, dall’altra l’andère ed infine gli operai, talvolta legati tra di loro da un vincolo di parentela o di amicizia.

QUÀNNE TE VÒLE BÈNE ‘U PATRÙNE, VATTÌNNE

Insomma, raccolti nella raccolta, abbracciati dalle fronde dell’albero, gli incontri e gli scontri intergenerazionali sono favoriti, come anche non mancano i confronti dialettici all’ultimo sangue: in ogni caso, se lo scambio di opinioni dovesse protrarsi eccessivamente o spingere gli interlocutori ad un tono di voce inopportuno, c’è comunque il “chiàcchiere e frùtte” riconciliatore e moderatore da parte d‘u patrùne o dell’andère. Lo stile di leadership assunto da questi ultimi è, come in ogni ambiente lavorativo, variabile. A tal proposito, per i neofiti, può giungere in aiuto la proverbiale saggezza dei nostri avi, secondo cui: “Quànne te vòle bène la patròne stàtte, quànne te vòle bène ‘u patrùne vattìnne”.

ADDÒ VÌDE I PÀLLE RÒSSE, JÈ NATÈLE

Col passare dei giorni i rapporti si stabilizzano, mentre i ciliegi dal canto proprio si liberano dal mutismo delle proprie foglie per rendersi più eloquenti con il progressivo accendersi delle tante luci rosse nascoste tra le fronde stesse. Nelle prime battute della raccolta, quando ancora poche sono le ciliegie sufficientemente mature, è facile difatti incorrere nel monito esortativo: “addò vìde i pàlle ròsse jè Natèle”. Ebbene, lasciando la sacralità al suo posto, si potrebbe comunque approfondire l’incredibile repertorio di esortazioni, battute e contro-battute pronunciate dal generale e dai suoi sottoposti. Il lessico militare non è casuale, giacché, come si suol dire, “ce tène tèrre, tène ‘uerre”: una guerra lunga quasi un anno, fatta di cure maniacali, certosine, di sacrificio a favore della terra e dei silenti ciliegi per risvegliarli dal sopore invernale e guidarli verso l’abbondanza di maggio e giugno.

L’ÀRTE DE MICHELÀSSE…

Dopo tante battaglie, dunque, le sorti della guerra si decidono nel giro di un mese, quando Turi, alle prime ore dell’alba, si trasforma in un alveare di api forsennate. Difatti, la raccolta delle ciliegie, a prescindere dalle annate, ingolosisce tutt’ora tantissimi turesi e forestieri, non poche volte extracomunitari, dal momento che “ce tu ‘uè fadeghè, Amèreche jè ddò Amèreche jè ddè”: o quantomeno questo vale per il mondo dell’agricoltura a Turi, poiché in altri ambiti la nostra città fatica ad offrire le stesse opportunità, sempre lavorativamente parlando.

Forse anche per tale ragione, quindi, la raccolta cerasicola è vissuta da moltissimi turesi come un momento in cui la decisione di disertare, di rimanere a spasso rappresenta quasi un oltraggio: facilmente, infatti, chi preferisce spendere il proprio tempo oziando durante il periodo di raccolta viene bollato come Michelàsse, ovverosia colui che “mànge, bève e stè alla spàsse”. Con questa formula si vuole quindi indicare un perdigiorno, nu’ squagghiasòle, nu’ scàmbe-la-pertjère inconsapevole del fatto che “la fatìche accòrce la dìje e allònghe la vìte”. Le vecchie generazioni, alla vista di questi individui, tirano fuori il meglio – o forse sarebbe più opportuno dire il peggio – di sé, mostrando le proprie doti da rappers ante litteram: ci ha colpito a tal proposito un “ce muère, te sàlve” al quale poter controbattere è davvero arduo. Persino la classica espressione “tutt’i pète abbesògnene o’ parète” risulterebbe in tal senso inefficace.

Intramontabile, invece, lo strumento della pazienza, la stessa cui prima si faceva cenno attraverso le parole di Valentini, la stessa di cui devono armarsi gli operai, ai quali auguriamo buon lavoro per lo sprint finale.

LEONARDO FLORIO

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