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Il Camposanto dei Colerosi di Turi

cimitero colerosi (2)

Un sito storico da valorizzare e tramandare ai nostri figli 

A Turi, il 1° settembre 1837, muore la prima vittima del cholera-morbus. È l’inizio di trentadue giorni vissuti come un incubo, tra lo sconcerto delle autorità, il terrore dei cittadini e l’impotenza della medicina del tempo. Per fronteggiare l’epidemia, venne realizzato un camposanto dove dare degna sepoltura alle anime trapassate; la scelta ricadde su un suolo in via Castellana poiché, essendo sufficientemente distante dal centro abitato, permetteva di rispettare la profilassi imposta dall’emergenza sanitaria.

Con il passare del tempo, l’area dell’antico Cimitero dei Colerosi ha subìto una urbanizzazione scellerata: case e condomini hanno inglobato un importante sito, che avrebbe meritato più rispetto, salvaguardia e tutela. Ricordo, infatti, che l’ex camposanto dei colerosi, da qualche decennio, è stato dichiarato monumento storico nazionale ed è sottoposto a vincolo architettonico ai sensi del codice dei beni culturali e ambientali (ex D.lvo 490/99). Inoltre, il sito è ubicato in un’area con rilevante valenza archeologica e idrogeologica, recepita nel nostro Piano Urbanistico Generale.

La sorte dell’ex Cimitero pare oggi nuovamente in bilico. Difatti, con delibera del 18 novembre 2021, la Giunta comunale ha approvato il progetto definitivo ed esecutivo che prevede di impiegare il finanziamento di circa 76.000 euro, riveniente da un bando del consorzio GAL, per la realizzazione di un’area sosta per i turisti, con un punto attrezzato per i camper e uno spazio dedicato al pic-nic; un’area gioco per i bambini e un’area sgambatura per i cani; il rinnovo dell’arredo urbano (lampioni e panchine) della villetta preesistente.

Senza voler entrare nel merito estetico e funzionale dell’opera, l’auspicio è che si prenda in considerazione l’opportunità di rivisitare la progettazione, optando per un indirizzo che, nel rispetto dei vincoli apposti, sia più fruttuoso per il patrimonio storico in questione. Una proposta potrebbe essere quella di realizzare all’interno dell’ex camposanto un orto urbano, aprendo la strada ad almeno tre prospettive: inaugurare uno spazio verde fruibile di cui la periferia del paese è carente; valorizzare la biodiversità del nostro territorio, coltivando piante officinali ed essenze autoctone; creare un contenitore culturale alimentato da laboratori didattico-ambientali, affidando l’area comunale ad una delle tante associazioni culturali del paese.

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Un mese di epidemia vissuto come un incubo

Per progettare il futuro bisogna conoscere il passato. Animato da questo monito, propongo di seguito una breve ricostruzione degli eventi che accaddero quasi due secoli fa, quando la nostra comunità si trovò alle prese con la funesta epidemia di colera.

Va detto che, l’attacco del colera, a Turi, durò poco più di un mese (1° settembre – 2 ottobre 1837) e fortunatamente fu molto contenuto. Infatti, i Comuni limitrofi e le altre regioni del Regno delle due Sicilie ebbero perdite umane di gran lunga superiori alle nostre. A Turi, che nel 1837 contava 4.709 abitanti, furono contagiati 127 donne e 35 uomini, di cui perirono solo 25 donne e 10 uomini. Gli altri cittadini infettati guarirono completamente grazie alle attente cure dei medici condotti di Turi: i professori di medicina Pietro de Donato, Giacomo Zita e Vincenzo D’Addiego si prestarono con coraggio e dedizione all’assistenza di tutti i turesi infermi, lavorando senza sosta e impiegando tutte le loro conoscenze e i rimedi scientifici del tempo.

La prima vittima del colera

Il 1° settembre 1837, il turese Francesco Colapinto, di anni 58, risulta la prima vittima del colera. Il Comune di Turi, con massima tempestività, si organizzò per affrontare il terribile morbo.

Il 3 settembre 1837, il sindaco di Turi, Vitantonio Giannini, scrive al Marchese di Montrone, Intendente di Terra di Bari, per comunicare le azioni che si stanno intraprendendo: «L’indomabile morbo asiatico non sazio di aver immolato alla sua ferocia tante vittime in questa provincia del Regno intero […] alla fine si è penetrato nei focolari di questi miei cittadini, fin dalla notte del 31 agosto 1837. Assalendo al primo attacco le donne, che fin ad oggi ascendono al numero di undici, delle quali tre sono già trapassate […]».

La costruzione del camposanto

Nella stessa missiva, il primo cittadino informa che in sinergia con il «decurionato e la commissione sanitaria» si sono occupati di realizzare il «camposanto per i cholerosi», «alla distanza ordinata dai regolamenti in vigore», «in un fondo di proprietà del Real Monastero di Santa Chiara di Napoli». Inoltre, «si è dovuto far travagliare una cassa mortuaria ed acquistare un carro funebre per lo trasporto dei cadaveri in tempo di notte».

I regolamenti richiamati prendono origine dall’editto napoleonico detto di ‘Saint Cloud’ (12 giugno 1804) che stabiliva che ogni Comune dovesse avere un proprio camposanto costruito in aperta campagna, lontano dai centri abitati, principalmente per ovvi motivi igienico-sanitari. Il dispositivo rivoluzionava l’antica usanza di seppellire i morti intorno agli orti delle chiese e per questo fu molto criticato; tuttavia, la legge fu confermata anche successivamente, con la fine del periodo rivoluzionario ed il ritorno al potere dei Borboni.

Una comunità unita per superare l’emergenza

Allestito in tutta fretta il Cimitero, si costruì un carro funebre, trainato da muli, costato complessivamente ducati 37,07. Il ‘trainiere’ addetto fu Vito Donato Pasciolla, il quale si occupò del trasporto dei cadaveri colerosi nel camposanto che, come noto, fu allestito in via Castellana. Al ‘falegname’ Giuseppe Schettini furono corrisposti grana 87,3 per la costruzione della cassa funebre da integrare al carro, nonché di una croce in legno colorato alta 9 palmi (2,34 metri) e di una scala a pioli alta 11 palmi (2,21 metri), entrambe utilizzate nel Cimitero.

Per motivi di sicurezza pubblica, il decurionato comunale nominò “custode del camposanto” Giovanni D’Addiego. La nomina fu valida per il periodo lavorativo dal 1° settembre 1837 sino al 1839, e gli furono corrisposti 200 ducati.

I due ‘seppellitori’ addetti all’inumazione furono i turesi Sabino Di Bello e Giovanni Conforto e vennero retribuiti con 40 grana al giorno; gli stessi furono muniti di due grosse fiaccole, indispensabili per illuminare il cammino dall’abitato al Cimitero, in quanto le operazioni di seppellimento dei morti di colera furono eseguite di notte. Inoltre, gli amministratori ingaggiarono alcuni contadini di Turi “per cavar le fosse”. Il totale delle giornate fu 61 per gli ‘uomini’ e 48 per i ‘ragazzi’. Il costo della giornata lavorativa fu di grana 30 per gli uomini e grana 10 per i ragazzi, quest’ultimi, muniti di zappa, “tiravano la terra dalle fosse”.

Dal “maestro murario e basolaro” Domenico Tinella, per ducati 4,51, si acquistarono 22 ‘cantaia’ di calce in polvere [pari a quasi due tonnellate]. Il cloruro di calce fu impiegato per la disinfestazione delle abitazioni colpite dal morbo, eseguita dai farmacisti di Turi Donato Scalera, Domenico D’Addiego e Giuseppe Rocco De Leonardis, con l’ausilio di due infermieri.

Per illuminare l’ufficio della commissione sanitaria e per alimentare le lampade utilizzate dai seppellitori furono spese grana 85 ‘d’olio lampante’, acquistato dal ‘bottegaro’ Giovanni Acito.

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La fine dell’epidemia

Il 2 ottobre 1837, una delle ultime vittime del colera a Turi risulta la piccola Esposito Pellegrina, di sette mesi, figlia di Gaetano e di Rachele Imparata, provenienti da Napoli, di professione ‘giocolatori’ o ‘giocolieri’. La famiglia Esposito si trovava a Turi sin dall’agosto del 1837, forse per esibirsi nella festa di Sant’Oronzo. Gli stessi, alloggiarono presso l’abitazione di Aniello Panarelli, “serviente comunale”, che abitava in piazza Municipio.

Dopo trentadue giorni di paura e incertezza, a Turi, l’epidemia del colera risulta sconfitta, tanto che il 21 dicembre 1837 il sindaco Giannini scrive nuovamente all’Intendente di Terra di Bari: «Signore, all’aggressione del morbo tutto l’abitato si divise in quattro sezioni. Due volte al giorno si visitavano le case degli attaccati per somministrare loro le medicine, consigliate dai Professori. Si fissò un luogo pubblico per preparare dei brodi e somministrarli agli infermi di giorno e di notte, sempre a giudizio dei Professori. Si destinarono due infermieri e due speziali dei quattro esistenti, che andavano nelle case dei trapassati per disinfettare i muri e i mobili ivi esistenti. L’incaricato della polizia urbana spiegò con zelo ed energia che, per rendere salubre l’aria del paese, bisognava spurgare ogni sostanza infetta e fetida».

Il 2 ottobre 1837 il Marchese di Montrone risponde ed elogia il sindaco: «Le esterno tutta la mia soddisfazione per le sollecitudini spiegate da lei e da tutti gli altri funzionari per apprestare soccorsi pronti e di ogni sorta agli infermi della dominata malattia e dei segni di filantropia che han dato codesti amministratori e tra gli altri li professori sanitari».

L’odissea della costruzione del muro di cinta

Superata l’emergenza sanitaria, i decurioni convocano a Turi gli ingegneri Nicola Scodes da Bari e Matteo Pascasio da Mola. I due tecnici, dopo aver effettuato il sopralluogo presso il sito ove erano stati seppelliti i colerosi, dichiarano da subito che tale luogo era inadatto per l’uso di camposanto. Tuttavia, i tecnici suggerirono agli amministratori che era indispensabile la costruzione di un muro di cinta, per motivi di sicurezza sanitaria, specificando che «deve essere di forma rettangolare della grandezza di palmi 90×80 [pari a circa 23×46 metri], e il preventivo di spesa sarà di ducati 294».

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Il 7 luglio 1838, dopo l’approvazione del progetto da parte dell’Intendente di Terra di Bari, i decurioni deliberano i lavori del muro al camposanto «nella contrada che da Turi mena nel Comune di Castellana, ad una distanza indicata dalla legge, in cento passi in più, in territorio sativo, sotto il titolo del Santissimo. Atto alla inumazione per la profondità del terreno, che offre in palmi 7 circa, e sito in una piccola valletta, tal che i venti settentrionali non possano spingere verso questo abitato le esalazioni, e la via colà che mena non è frequentata e battuta, per essere quasi quasi una contrada inospite a questi abitanti».

Dopo l’affissione del bando, eseguita dal “banditore” turese Vito Leonardo Rossi, il 6 dicembre 1838, dopo alcune ‘subaste’ andate deserte, l’appalto viene aggiudicato al maestro murario Giovanni D’Addiego, di Giuseppe Nicola, al prezzo di ducati 11 la pertica (pari a 2,63 metri). Francesco D’Addiego, di Francesco Paolo, ‘intraprenditore’ e ‘conciapelle’, fu il garante dei lavori appaltati, mentre il perito di fiducia, incaricato dal Comune, fu il ‘maestro murario’ Pietrantonio Schettini di Noci, domiciliato a Turi.

Nell’agosto 1840 il camposanto dei colerosi di Turi, dopo due anni dall’inizio dei lavori, è un’opera, diremmo oggi, ‘incompiuta’, ragion per cui l’Intendente di Terra di Bari invia l’ingegnere regio Felice Ravillion che, giunto a Turi il 28 agosto, dà il giusto impulso al prosieguo dei lavori. Il 7 novembre 1840, Ravillon, dopo aver misurato e verificato la corretta esecuzione dell’opera, redige il verbale di fine lavori, sbloccando i 100 ducati lasciati in garanzia dal ‘conciapelle’ Francesco D’Addiego.

Stefano de Carolis

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